Il recente articolo di Joseph Stiglitz (il manifesto,3 marzo) ha il merito di disegnare un quadro limpido della situazione sociale ed economica dell’Unione europea dopo otto anni di crisi, e dei pericolosi contraccolpi politici (crisi democratica e impetuosa crescita della destra radicale) che ne conseguono. Stiglitz insiste sulle responsabilità delle leadership europee (scrive di un «malessere autoinflitto») e punta il dito sulle «pessime decisioni di politica economica» (l’austerity) ispirate a teorie fallimentari. È una base di partenza per una seria discussione, e anche un utile contributo per la ricostruzione di una pratica critica che riapra un quadro politico stagnante, imprigionato (non solo in Italia, ma soprattutto qui da noi) in una camicia di forza che sta rapidamente soffocando la democrazia. Con gravi responsabilità delle sinistre socialiste, che hanno cooperato alla costruzione dell’architettura istituzionale e monetaria di questa Europa.

C’è solo un aspetto dell’analisi di Stiglitz che non convince e forse merita un supplemento di riflessione. Come molti altri anche Stiglitz parla di «errori», di «modelli viziati», della «follia» che accecherebbe le classi dirigenti impegnate in politiche rovinose. Questa rappresentazione suggerisce che la costruzione europea prima, la gestione della crisi via austerity e deflazione salariale poi, abbiano danneggiato indiscriminatamente tutti, risolvendosi in un incomprensibile esercizio di autolesionismo collettivo. Le leadership europee avrebbero «sbagliato» e persevererebbero diabolicamente, nonostante gli effetti negativi delle loro scelte danneggino tutti gli attori coinvolti: Stati, economie nazionali, classi sociali.

Se le cose stessero così, lo storico di domani si troverebbe di fronte a un bel dilemma. Beninteso, non sarebbe la prima volta che un intero Continente sembra imboccare senza ragioni evidenti la strada del suicidio. La storiografia si divide ancora sulle cause della prima guerra mondiale. Quello che fu l’evento inaugurale del nostro mondo somiglia tanto a un gesto suicidario dell’Europa uscita dalla belle époque, e forse non è casuale che solo dopo la guerra Freud cominci a riflettere sulla «pulsione di morte».

Ma forse nel caso dell’Unione europea e della gestione recessiva della crisi le cose non sono altrettanto misteriose. Forse il quadro si semplifica, almeno in parte, se, rinunciando alla chiave degli “errori” e dell’”impazzimento collettivo”, si suppone che quella che stiamo vivendo sia una transizione, e che le politiche adottate dai sovrani della troika e dai governi nazionali più forti, Germania in testa, rientrino in un processo governato di ristrutturazione delle nostre società: in una distruzione creatrice, finalizzata alla sostituzione del modello sociale postbellico (il capitalismo democratico incentrato sul welfare pubblico e sulla riduzione delle sperequazioni in un’ottica inclusiva) con un modello oligarchico (postdemocratico) affidato alla «giustizia dei mercati globali» e caratterizzato dal binomio povertà pubblica – ricchezza privata. Che poi questa grande trasformazione generi anche effetti indesiderati (la crescita del neofascismo euroscettico) non cambia il discorso di una virgola, visto che notoriamente non tutte le ciambelle riescono col buco.

Non è escluso che, se leggessimo questo decennio (e gli ultimi quarant’anni) come una rivoluzione passiva, l’analisi di Stiglitz ne guadagnerebbe in completezza. Alcuni dati sembrano infatti confermare la coerenza del processo e la sua pur perversa razionalità. La crisi ha debilitato le economie nazionali, molti paesi europei sono da anni in recessione e registrano un calo del Pil rispetto agli anni pre-crisi. Se consideriamo l’Italia al netto della fanfara propagandistica, i principali indicatori (le curve del Pil, della ricchezza media pro capite e della disoccupazione) denotano una situazione di coma economico e di grave regresso sociale. Ma queste sono, come dice Stiglitz, «fredde statistiche». Dietro le quali non si cela un paesaggio omogeneo.

La crisi (proprio come la guerra) non è un guaio per tutti. Non lo è nel mondo, dove – ricordava l’inserto di «Sbilanciamoci!» del manifesto del 27 febbraio – i primi 80 miliardari hanno visto aumentare la propria ricchezza del 50% negli ultimi quattro anni. Non lo è in Italia, dove, per ragioni che non è qui possibile analizzare ma che non hanno nulla a che fare con il caso né con il destino, il reddito annuo dei sempre più precari lavoratori dipendenti è calato, tra il 2000 e il 2013, di ben 8.312 euro, mentre quello dei professionisti ne ha guadagnati 3.142.

Sempre in Italia, negli ultimi cinque anni le dieci famiglie più ricche (proprietarie di quasi metà della ricchezza netta totale) hanno raddoppiato il proprio patrimonio, mentre il 30% più povero della popolazione (18 milioni di individui) ha visto il proprio ridursi quasi di un quinto. La metà più povera degli italiani (concentrata nel Mezzogiorno) ha perso oltre l’11% di quanto possedeva inizialmente; anche la metà più ricca ha perso, ma solo l’8%, e con una perdita concentrata nelle classi medie, sempre più povere.

Si potrebbe continuare a lungo, per esempio ricordando ancora che nel 2012, mentre il Pil italiano cadeva del 2,4%, il patrimonio delle famiglie più ricche (con un patrimonio superiore a 500mila euro) aumentava in media del 2%. Ma il quadro è abbastanza chiaro.

Lo si potrebbe riassumere in tre semplici slogan: sta (ri)nascendo un’Europa delle caste, incompatibile con la democrazia; capire la crisi è possibile solo leggendo i mutamenti che essa produce in termini di rapporti di forza tra le classi; capire non basta, e la sinistra italiana ed europea non esisterà – se non come figurante nello spettacolo dei teatrini istituzionali – finché resterà complice di questa grande trasformazione e non aprirà una lotta senza quartiere contro il nuovo (arcaico) modello sociale che, grazie alla crisi, sta prendendo forma.