Rigore o crescita? Questo sembra essere diventato il ritornello martellante con cui si esaurisce la questione dell’Europa e delle politiche economiche che devono mettere in atto i paesi che ne fanno parte. Ne parliamo con Leonardo Paggi, ordinario di storia contemporanea all’università di Firenze, nonché curatore nel 2012 del libro Un’altra Italia in un’altra Europa (Carocci). Lo storico italiano sarà uno dei relatori a «Quo vadis Europa?», un incontro organizzato all’Università di Urbino a partire da oggi.

Per comprendere dove stia andando l’Europa, forse bisognerà prima chiedersi da dove essa proviene, pensando soprattutto a un’unificazione che è stata solo finanziaria e mai politica. Non crede?

Talvolta le crisi sono l’occasione per balzi in avanti. Non è questo il caso dell’Unione Europea dopo il 2008. Nel momento in cui si sviluppava la pressione speculativa dei mercati sul debito pubblico dei paesi più deboli, portando alla luce del sole la incongruenza strutturale di una moneta senza stato (il trattato di Maastricht), tutto spingeva in direzione di una prima fiscalità comune che avrebbe segnato l’inizio di un politico sovranazionale. Con il fiscal compact si è imboccata la strada opposta, configurando la Ue come una addizione di economie e di stati con interessi non solo diversi, ma anche tra loro competitivi. Tutta la fumosa retorica europeista di cui ci siamo cibati per anni si è dissolta come nebbia al sole. Occorre un ripensamento radicale delle origini dell’Europa, in ottemperanza alla «degnità» vichiana secondo cui la natura delle cose sta nella guisa del loro nascimento.

Sembra passata un’eternità da quando si dibatteva a proposito delle radici culturali dell’Europa. Quali sono, secondo lei, queste radici, e perché a tutt’oggi non sono state in grado di produrre una pianta sana e coesa?

Ho sempre trovato vago e confuso il dibattito sulle radici culturali. Credo invece sia giunto il momento di domandarsi se il progetto americano di un’Europa come sottosistema atlantico e zona di libero scambio, quale prende forma all’inizio degli anni cinquanta, non escludesse già allora, nel suo nascimento, la costituzione di un soggetto federale autonomo. La politologia americana ha definito lo stato nazione europeo uscito battuto dalla seconda guerra mondiale un trading state, ossia uno stato a cui è rigorosamente vietato di ritradurre in termini politici e militari i successi conseguiti sul piano economico.
Bisogna oggi domandarsi se in questa definizione non sia contenuta la fotografia di uno stato di fatto. Un euro senza stato, lo abbiamo visto, è una moneta alla mercé di qualsiasi movimento speculativo originato da Wall Street, tanto che sono ancora operanti, anche sul piano finanziario, i rapporti di forza usciti dalla seconda guerra mondiale.

Il modello europeo, sul piano economico ma non soltanto, ha costituito un’alternativa a quello americano, seppure essendone un alleato. Basti pensare al sistema del welfare state, o al radicale contrasto ideologico fra autori come Keynes e, oltreoceano, Hayek e Friedman. Eppure oggi ci troviamo di fronte a un’americanizzazione della stessa Europa, condannata a uniformarsi o perire. Cosa è successo?

A partire dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso, quando prende forma il mondo in cui viviamo, l’abbandono della piena occupazione per il controllo dell’inflazione rappresenta non solo la crisi delle politiche keynesiane che hanno consentito i precedenti successi, ma anche l’inizio di una costante erosione della sovranità dello stato nazione europeo e della sua capacità di governare in autonomia le proprie grandezze macroeconomiche. Il dato che più caratterizza questo passaggio storico sta nel fatto che, proprio in ragione della crisi del keynesismo, la Germania prende la guida dell’Ue. Il Modell Deutschland di Helmut Schmitt contiene già tutti gli elementi che fanno oggi dell’economia tedesca la plancia di comando dell’economia europea. Attraverso lo Sme (1979) il marco comincia a fungere da punto di riferimento obbligato per le banche centrali europee, fino a divenire con Maastricht «parametro» di economie strutturalmente diverse da quella tedesca. La capacità di combinare lo sviluppo con una fortissima stabilità monetaria fa dell’economia tedesca quella più capace di convivere e resistere al dominio crescente del capitale finanziario.

Barbara Spinelli, recentemente, ha formulato un’accusa pesante verso i politici e i governanti europei, definiti come «re dormienti» che, per convenienza o per pigrizia intellettuale e programmatica, si sono rassegnati alla diluizione dello spazio europeo nello spazio atlantico, sottomettendosi a una sorta di «Nato economica». Qual è il suo pensiero in proposito?

Fu Altiero Spinelli il primo ad accettare il passaggio dall’Europa federale (presunto soggetto autonomo di politica internazionale) all’Europa/Nato. Solo Piero Calamandrei, che io sappia, votò contro l’inclusione dell’Italia nella Organizzazione atlantica, suscitando le ire dei suoi amici azionisti (Ernesto Rossi, Guido Salvemini) che lo accusarono di filo comunismo. Venendo all’oggi la forsennata e prematura inclusione dell’Europa orientale nella Ue si spiega solo con la volontà statunitense di spostare sempre più a Est le batterie dei missili Nato. La scelta è condivisa dalla Germania riunificata che vede la possibilità di ricreare la sua vecchia Mitteleuropa, come di fatto è avvenuto, spostando a proprio favore tutto il baricentro economico e geopolitico della Ue.

Con le crescenti forme di disagio sociale, monta anche il numero di persone che propongono l’uscita dell’Italia dall’Europa. Romano Prodi, uno degli artefici della nostra entrata in Europa, ha detto che questa sarebbe una soluzione paragonabile al suicidio. Lei cosa ne pensa? Uscire dall’Europa o restare dentro per cambiarla, e come?

Non credo al «piano B» di Paolo Savona e ritengo fuorviante il dibattito sulla fuoriuscita dall’euro. È una opzione immaginaria, per cui non esistono le condizioni politiche. Nello stato di prostrazione in cui versa in Europa la politica democratica è assai difficile immaginare un governo sufficientemente forte e legittimato per affrontare gli enormi rischi economici impliciti nell’abbandono dell’euro. Né è possibile contare sullo scenario catastrofico vaticinato dal Nobel per l’economia Paul Krugman e dal finanziere George Soros, secondo cui la politica di austerità da sola, e in quanto tale, farebbe saltare la moneta unica.

L’interrogativo di fondo, «quo vadis Europa?», non può prescindere dal più generale «quo vadis mundo»? Nuove guerre all’orizzonte, terremoti geopolitici che smontano i vecchi equilibri, l’emergere di una potenza straordinariamente forte come la Cina. Insomma, di quale Europa avremmo bisogno per sopravvivere in un mondo che, per parafrasare Gramsci, mai come oggi si è rivelato così «grande e terribile»?

La nuova guerra fredda originatasi dalla crisi ucraina mi sembra penalizzi, non meno dei mercati finanziari, l’autonomia dell’Europa. Ci siamo rimangiati anche la Ostpolitik!, per decenni tratto distintivo della nostra presenza internazionale, ed è sparita ogni traccia di politica mediterranea. Sono d’accordo: non è facile vedere a breve sviluppi positivi, ma per questo è preliminare mettere a nudo il carattere ideologico e volgarmente strumentale di tutto il vecchio europeismo, quale si è configurato fin dai suoi inizi.