Parole come «innovazione» o «creatività» non sono mai state così presenti nel discorso pubblico: dalla tecnologia all’impresa, passando per la Costituzione e la finanza, «innovare» sembra essere un imperativo categorico a cui tutti siamo sottoposti. Eppure, i risultati non sono entusiasmanti. Forse non basta evocare innovazione e creatività per vederle realizzate. Occorre capire in dettaglio cosa siano davvero, in quali condizioni si sviluppino e da quali leggi siano governate.
A comprendere il processo creativo, nella storia, ci hanno provato in tanti: filosofi, neuroscienziati, artisti e economisti hanno dato le loro interpretazioni sull’atto innovatore, su come una nuova soluzione risolva un problema esistente. Visto che ci si capisce ancora poco, adesso è il turno della fisica. Una piccola comunità di scienziati, guidati tra gli altri da Vittorio Loreto dell’università Sapienza di Roma, oggi studia le leggi della creatività usando modelli matematici presi in prestito dalla fisica statistica. «Negli ultimi anni, la cosiddetta ’scienza della complessità’ ha acquisito un ruolo sempre più strategico nell’affrontare, comprendere e sfruttare le trasformazioni tecnologiche e il loro impatto sulla società e sui sistemi umani», afferma Loreto, docente di fisica dei sistemi complessi e decisamente allergico alla torre d’avorio in cui gli scienziati spesso si isolano.

Dal 26 al 30 ottobre, Loreto e il suo team di ricerca saranno i registi dei Kreyon Days al Palazzo delle Esposizioni di Roma, in cui chiunque potrà osservare da vicino e partecipare agli esperimenti sulla creatività. «Divulgazione e partecipazione sono due aspetti chiave del progetto Kreyon – prosegue Loreto -. Non vogliamo solo osservare le persone e le società che agiscono, ma vogliamo che essi stessi siano in grado di osservare i propri comportamenti, e siano in grado di vedere a quali risultati portano scelte diverse».

La strategia visionaria

Un filone di ricerca come questo è inusuale per dei fisici teorici. È ancora più sorprendente in un periodo di vacche magrissime per i ricercatori, in cui i soldi da investire in progetti di ricerca fuori dagli schemi sono pochissimi. Infatti, dietro agli studi sulla creatività c’è un’istituzione filantropica statunitense, la John Templeton Foundation, che ogni anno investe circa 70 milioni di euro (quasi quanto l’intero investimento italiano nei progetti di ricerca di interesse nazionale) in studi caratterizzati da un certo grado di «visionarietà», strategia che ha attirato alla fondazione anche diverse critiche.

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Einstein con il Lego

Nel caso del progetto Kreyon, l’obiettivo è effettivamente ambizioso. Lo studio mira a comprendere se la creatività sia un processo individuale o collettivo, se e come possiamo «misurarla» e in quali contesti essa prosperi. Anche se il risultato finale è comprensibilmente lontano, il metodo scelto per raggiungerlo è assai interessante e rivela le innovative (queste sì) modalità con cui si organizza un lavoro di ricerca oggi. Loreto e compagni, infatti, chiederanno a un gran numero di volontari di fornire essi stessi i dati su cui effettuare l’analisi, sfruttando piattaforme online ed eventi dal vivo come i Kreyon Days.

Gli utenti parteciperanno a piccoli esperimenti sociali, o più prosaicamente a dei giochi, in cui mettere alla prova le proprie facoltà creative. In questo modo possono essere raccolti una mole di dati a costi contenuti, per di più invitando le persone a delle attività divertenti. Per dare qualche idea, il pubblico dei Kreyon Days verrà invitato a rappresentare concetti utilizzando i mattoncini Lego, scrivere collettivamente una trama narrativa a partire da una frase casuale o comporre melodie. Inoltre, verrà premiata come l’elaborazione di un gioco che stimoli la ricerca di soluzioni a emergenze globali come mutamenti climatici e crisi economiche. Tutto sotto l’occhio discreto degli scienziati in cerca di big data.

Il progetto Kreyon permette di osservare due tendenze crescenti nell’organizzazione dell’attività di ricerca. La prima consiste nella diffusione della cosiddetta citizen science, in cui la cittadinanza è invitata a trasformarsi da semplice fruitore a attore della ricerca.
Complice anche la necessità di contenere i costi, sempre più spesso gli scienziati si rivolgono al pubblico chiedendogli di dare una mano nei modi più vari. Ad esempio, si può installare sul computer di casa un piccolo software che svolge una porzione minuscola dei complicatissimi calcoli necessari a prevedere la conformazione delle proteine, inviandone poi il risultato su un server centrale gestito dai ricercatori (folding.stanford.edu). Oppure, si può partecipare a Galaxy Zoo, un sito che invita gli utenti a classificare stelle e galassie a partire dalle immagini dell’universo raccolte dai principali telescopi terrestri e spaziali, compito facile ma molto dispendioso se svolto dai pochi ricercatori che generalmente compongono un team. Invece milioni di utenti hanno partecipato spontaneamente a questo tipo di attività, fornendo dati affidabili e utilizzati quotidianamente dalla comunità scientifica. È un sistema di lavoro simile al crowdsourcing usato dalle aziende per esternalizzare compiti che possono essere svolti a distanza.

Cittadini interattivi

L’altra tendenza si chiama gamification: com’è facile intuire, è più probabile che un utente partecipi volontariamente a un’attività utile se essa si presenta sotto forma ludica. Ma è stata trasformata in un gioco anche l’elaborazione collettiva della mappa globale «Open Street Map», principale concorrente del servizio Google Maps, fondata però sul principio della libera condivisione dei dati.
Ben oltre la ricerca scientifica, la gamification si diffonde in settori come il marketing o l’istruzione. In effetti, il successo di un’innovazione, a prescindere dal campo, è strettamente legato a come essa si diffonde, cioè dai processi di apprendimento. «Per noi l’apprendimento consiste nell’essere in grado di leggere la complessità dell’ambiente in cui viviamo e identificare gli strumenti più efficaci per adattarci ad esso e prendere decisioni», spiega Loreto. Una delle scoperte più interessanti, realizzata proprio dal suo gruppo nel 2015, riguarda i nuovi luoghi dell’apprendimento, come l’enciclopedia online Wikipedia: la rete dei collegamenti tra le varie voci dell’enciclopedia risulta essere quella «ottimale» per permettere ad un utente di assorbire nuova informazione. Dato che la rete è interamente auto-organizzata, questa peculiarità non è dovuta a una regia superiore ma deve emergere in modo spontaneo dall’interazione collettiva, con un meccanismo ancora ignoto.

L’analisi dei processi creativi mostra un elemento comune. «Diversi studi sull’evoluzione biologica, culturale o tecnologica hanno ipotizzato che una singola innovazione può costituire le fondamenta per quella successiva creando nuove opportunità di sviluppo», sostiene Loreto. È il modello dell’«adiacente possibile» ideato dal biologo Stuart Kauffman, cioè delle soluzioni che sono a un passo da ciò che esiste già e che possono emergere a partire da ricombinazioni del materiale esistente.
I fisici del progetto Kreyon hanno dato una base matematica a questa idea. Per farlo, hanno studiato come le lingue evolvono e incorporano neologismi. Le evidenze empiriche le ha fornite il Corpus of Historical American English, una banca dati contenente 400 milioni di parole usate nella produzione editoriale statunitense dal 1810 a oggi.

Non è detto che gamification e citizen science entrino a far parte dei sistemi di innovazione e apprendimento della nostra società, come università e scuole. L’obiettivo di «imparare divertendosi» è stato condiviso da correnti di pensiero molto diverse, dal movimento del ’68 alla riforma Gelmini, finora senza particolari effetti. Ma forse i tempi stanno cambiando. Per non sbagliare, se a scuola trovate un Pokemon non catturatelo: potrebbe essere il prof.