Sì è conclusa domenica la sesta edizione del Sicilia Queer filmfest. Guardando a ritroso la selezione dei titoli italiani presentati in Panorama, la sezione che, come riportato da catalogo, cerca di dar conto a quelle «immagini, visioni, apparizioni che delineano un panorama inusuale nella distribuzione cinematografica internazionale», i lavori su cui concentrarsi sono probabilmente quelli di Bartolomeo Pampaloni, Cosimo Terlizzi, e dal collettivo catanese Canecapovolto.
I due progetti di Pampaloni (Come una stella del 2013 e Roma Termini, già presentato al Festival di Roma del 2014) delineano un attitudine in atto, che è quella del cosiddetto «cinema di prossimità», inteso come dispositivo relazionale al cui interno l’istanza filmica è prima di tutto esperienziale. L’immagine è una zona di contatto, la traccia di un rapporto conoscenza: in Come una stella l’interlocutore è Patrizia, transessuale napoletana, provata da una vita di eccessi, che vive la paura, ancora di più dopo aver smesso di prostituirsi, di venir cancellata dal paesaggio sociale. In Roma Termini sono invece tutte quelle anime pena che sopravvivono tra le pieghe della stazione ferroviaria. Per realizzarsi quest’idea di cinema deve partire da un gesto di reciproca generosità, di condivisione, tra chi sta da una parte e chi dall’altra dell’obiettivo; solo così è possibile filmare l’incontro in atto, le corrispondenze che si vengono stabilire, a cui la regia deve aprirsi.

E invece l’impressione di fronte a questi due progetti di Pampaloni è che il regista, pur tentando di celarla (e questo è l’aggravante), avesse già una precisa idea di messa in quadro dei soggetti coinvolti, dei canoni di rappresentazione di riferimento, che sembrano essere quelli della compassione cinematografica, che ha bisogno, ricattatoriamente, della morbosa immediatezza biografica.

Aurora, un percorso di creazione di Cosimo Terlizzi parte dalle stesse premesse da cui si muove Pampaloni con esiti però differenti. Il film documenta e traduce il percorso di creazione dell’omonimo spettacolo di danza di Alessandro Sciarroni, che coinvolge nella propria ricerca coreografica dei giocatori Goalball, sport praticato da non vedenti e ipovedenti. Terlizzi, che fino a questo punto aveva esplorato le risorse espressive offerte dal registro diaristico, devia dall’esclusività e dall’esibizione del proprio sé.

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Come racconta: «A differenza di altri miei lavori dove ho messo davanti me stesso, qui tutto era talmente forte e già ricco di emozioni e segni che dovevo solo fare attenzione ad esporli al meglio. Il mio vivere in un mondo visivo, il mio credo verso la bellezza che si guarda, crollava davanti a loro». Terlizzi non sceglie di annullarsi, al contrario parte dal ripensamento del suo gesto registico conseguente al coinvolgimento nel progetto di Sciarroni -«Mi ha accolto come un ’giocatore’ della sua stessa opera lungo tutto il percorso di creazione. Un giocatore a parte, ma completamente integrato». Osserva i giocatori nella loro quotidianità e durante il lungo periodo di training in cui si sono reinventati danzatori (che affiorano dal buio delle palestre guidati nei movimenti dai sonagli all’interno di una palla), per cogliere come il loro non vedere sia proporzionale a un ascolto più attento, a una percezione del mondo con altre sfumature.
Il collettivo catanese Canecapovolto con Spectrum SQ3105ORG, un format diviso in tre episodi – Condominio; Slaughter; Nembutal – dedicato all’Uomo-Massa e alla tragedia umana contemporanea, prosegue testardamente il proprio sabotaggio situazionista, per mezzo di strategie di spiazzamento, delle dinamiche di produzioni di senso.

Il problema che questi artisti pongono non è tanto quale codice adottare per compiere il lavoro di decifrazione quanto se ci sia qualcosa da decifrare – «Considerando – come hanno dichiarato i componenti del collettivo – che il Cinema fin dai suoi albori ha sempre mentito, anche per via della sua stessa natura tecnica, e che anche i documentari non sono in grado di liberarsi dalla soggettività dei loro autori e dalle caratteristiche autoritarie di ripresa e montaggio, siamo sempre stati interessati alla problematica della ’creazione della Realtà»).

Canecapovolto pone a fondamento del proprio modello di comunicazione la disattesa dell’aspettativa dello spettatore, che è costretto quindi in un regime di disagio percettivo (ripetizione, disorientamento sensoriale, detournement e modalità random) privo di scorciatoie seduttive.

Del resto, da sempre, al coinvolgimento il collettivo preferisce lo straniamento: «Questo accade perché – dice Canecapovolto – desideriamo che la cerimonia dello ’Spettacolo’ non avvenga ancora una volta a senso unico. Siamo convinti di dare nuova dignità allo ’spettatore’; è evidente che spesso spetta a lui un ’montaggio finale’».