Googolare è un brutto neologismo che significa «digitare una ricerca su google», il più usato degli attuali motori di ricerca in rete. A googolare «giorno della memoria» si ottengono in questi giorni circa 1460mila risultati in lingua italiana, ma a testimoniare la volatilità del magmatico mondo di internet, a giugno del 2013 se ne sarebbero ottenuti 2.340.000 e, ad un mese di distanza, 220mila in meno. Potenza degli algoritmi che governano la rete delle reti…

Non solo, i motori di ricerca sono strumenti flessibili e l’ordine di comparizione delle pagine è influenzato dalle vicende della cronaca. D’altro canto, «come la storiografia di una cultura alfabetica – scriveva Dario Ragazzini nel 2004 – è diversa da quella di una cultura orale così la storiografia di una cultura digitale sarà, ed è già, diversa da quella di una alfabetica».

«L’ho trovato su internet» quindi, la frase che qualsiasi genitore o insegnante si è sentito ripetere infinite volte, non è la scusa di un ragazzo pigro – come gli adulti sono spesso portati a pensare – ma un fatto che riguarda, in modo profondo, le modalità di formazione e acquisizione del sapere. Cosa trova allora uno studente se, in prossimità del 27 gennaio – il giorno in cui i sovietici liberarono nel 1945 il campo di sterminio di Auschwitz, settanta anni oggi – googola «giorno della memoria»? Cosa il mondo virtuale racconta del mondo reale?

Ambiguità dei termini

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Una sintesi illuminante è offerta da un grafico di google trend che, correlando i termini di ricerca «giorno della memoria», «Olocausto» e «Shoah», ne mostra l’interesse nel tempo. L’andamento delle tre parole è analogo e tutte mostrano il medesimo picco di interesse in prossimità del 27 gennaio per poi ridursi, quasi a zero, nel resto dell’anno: come a significare che in assenza del 27 gennaio, memoria istituita per legge, nessuno – o quasi – gogolerebbe Shoah. La legge 211 del 2000 condensa indubbiamente in due articoli non pochi nodi dell’intera storia repubblicana ma qualsiasi critica, pur legittima, al «giorno della memoria», ai suoi limiti e alle sue ambiguità, deve fare i conti con questo grafico: senza il «giorno della memoria» l’interesse del mondo reale per la Shoah oggi si esaurirebbe.

Un esito tutt’altro che casuale, le questioni relative alla memoria della Shoah infatti sono state inserite nel discorso pubblico della vicenda italiana ed europea relativamente di recente. Per quel che riguarda l’Italia si tratta di una vicenda prima estromessa nella sua specificità e collocata acriticamente nel paradigma resistenziale, poi emersa in amara competizione con la memoria della deportazione politica e militare, poi ancora assurta a rito civile celebrato con le emozioni piuttosto che con le ragioni. Oggi è anche a rischio di espulsione dalla storia per essere collocata nell’ambito della morale: valga per tutte l’espressione «Auschwitz, l’inferno in terra». Pochi argomenti come la Shoah infatti – parola ebraiche che significa «distruzione» e usata per definire lo stermino degli ebrei per mano dei nazifascisti durante la seconda guerra mondiale – si sono prestati ad un uso pubblico della storia.

Ed è forse per evitare la complessità dei nodi storiografici – l’antisemitismo e il razzismo interno alla vicenda europea, il ruolo dell’antigiudaismo cristiano, la questione dei totalitarismi, la riflessione su responsabilità individuale e collettiva, la dismissione del fascismo dalla storia italiana, la persecuzione di rom e sinti e quella degli omosessuali, solo per un indice approssimativo – che le celebrazioni per il «giorno della memoria» fanno spesso a meno della storia e preferiscono cedere il passo, sia nel rituale pubblico che in quello virtuale, alla memoria.

La ricerca in internet ne offre esempi ripetuti. Non è un caso se nel panorama in lingua italiana non compaiono, tra i primi risultati della googolata, le istituzioni scientifiche, università in testa, che potrebbero offrire contributi rigorosi, e gli studenti – e qualsiasi utente con loro – dovranno invece districarsi tra articoli di cronaca e cultura ripresi dai quotidiani, tra l’elenco delle iniziative degli enti locali e le programmazioni televisive e, solo se avranno la pazienza di procedere nelle pagine, potranno forse avere la fortuna di incontrare almeno i siti di alcune istituzioni: da quello dell’Unione delle Comunità Ebraiche, a quello del Centro di documentazione ebraica contemporanea o dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, o della Fondazione Fossoli.
La rete riporta le difficoltà del rito civile che privilegia la memoria alla storia, ma si tratta di una babele che solo la curiosità, la capacità critica e le conoscenze acquisite prima di googolare consentirebbero di dipanare. La formazione culturale dell’utente infatti – fuori dalla rete – rimane un fattore che non può essere eliminato, ma che assume anzi un ruolo e un valore ancora maggiore nella consultazione e nell’accesso critico al web, in un contesto in cui – piaccia o meno – vi è l’assenza di un attore culturale che si ponga come mediatore capace di elaborare un’enciclopedia condivisa. Così il teorico aumentare dell’offerta formativa offerta dalla rete – il cui rumore rischia di superare la democratizzazione di un sapere a cui tutti possono contribuire – ha aumentato la confusione del cittadino desideroso di sapere.

Ideologia virtuale

Non sorprende, quindi, che il discorso pubblico, reale e virtuale, non abbia saputo e potuto cogliere l’invito fatto dal presidente Ciampi in occasione del primo giorno della memoria nel 2001 quando colloca il 27 gennaio in «collegamento ideale con il 25 aprile, anniversario della liberazione, e il 2 giugno, anniversario della scelta repubblicana». Una sintesi ancora efficace nonostante gli anni trascorsi è quella espressa da Serge Noiret nel 2004: «L’analisi degli oggetti individuati durante una navigazione nella rete italiana fa emergere una realtà piuttosto deludente – in questo Noiret è in sostanziale accordo con altri studiosi – Molti siti infatti non offrono affatto contenuti originali e scientificamente utili e la professionalità degli storici non viene sfruttata al meglio all’interno del nuovo medium (…) Pochi sono gli spazi professionalmente, scientificamente e criticamente protetti e dilaga il così detto uso pubblico della storia contemporanea in rete: la proliferazione senza filtri possibili di siti e sitografie a-scientifiche e con messaggi ideologici che negano le acquisizioni storiografiche dell’ultima metà del XIX secolo o, più generalmente, non tengono conto della complessità delle problematiche storiche del Novecento».

Eppure, proprio per le caratteristiche assunte nel corso di questi quindici anni, la rilevanza istituzionale e mediatica, «il giorno della memoria», avrebbe potuto costituire in rete quel terreno intermedio tra storiografia scientifica e divulgazione ideologica. Così, per paradossale che possa sembrare, con l’eccezione di Wikipedia – l’enciclopedia online che supera l’idea di autorialità e affida la propria autorevolezza al controllo esercitato dagli utenti – che al tema dedica molti lemmi correlati da molti link interni; nello spazio pubblico virtuale, esattamente come accade nello spazio pubblico reale, le occorrenze riportano sostanzialmente testimonianze e documenti che parlano di «memoria». Anzi, proprio la storia contemporanea tende in rete ad essere legata alla sola memoria degli eventi o ad una moltiplicazione delle memorie individuali.

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Un rischio aumentato con la «nuova rete», quella 2.0, che consente anche a coloro che non possiedono particolari competenze tecnologiche di mettere on line liberamente oggetti culturali.

Il rischio è la parcellizzazione in ghetti informativi non comunicanti – metteva in guardia Antonino Criscione nel 2006 – portando ad una sorta di balcanizzazione del cyperspazio e alla frantumazione della sfera pubblica in aree legate ad interessi specifici e a passioni identitarie, fino all’emergere di una tendenza alla «privatizzazione» della storia. Fatto tanto più grave quando ad essa si fa riferimento per i riti condivisi della collettività e della cittadinanza e relegando a un «uso personale» la dolorosa e tragica memoria dei sopravvissuti alla Shoah – proposta in rete sia attraverso testi che filmati – lacerata tra il «dovere di memoria» volto al passato, il «ricordo che questo è stato» di Primo Levi; e l’impegno verso il futuro, il «mai più» ripetuto delle cerimonie pubbliche. Ma nelle parcellizzate risposte alla ricerca – nell’altalenarsi tra la certezza, espressa dai testimoni, che «comprendere è impossibile» e «il dovere di capire» – la rete non offre consapevolezza.

Agli intellettuali – e agli insegnanti – si apre una nuova funzione: redigere guide che consentano una navigazione consapevole e propongano un ordine in questa babelica confusione.

Giunti al 27 gennaio gli studenti hanno verosimilmente celebrato il Giorno della memoria più volte nel corso della loro vita scolastica e associativa, hanno avuto occasione di conoscerne da giornali, radio e televisione (per limitarci ai media «generalisti tradizionali»). Eppure, tra i paradossi che accompagnano il grande impegno della scuola per il «giorno della memoria», è bene ricordare un’asincronia: pur essendo proprio la scuola il destinatario privilegiato della legge istitutiva spesso, a gennaio, non si è ancora giunti a studiare il novecento. I ragazzi affrontano quindi la ricerca in rete – strumento primo e principale, se non esclusivo – privi di una preparazione storica critica che gli consenta di orientarsi nel mondo virtuale privo di gerarchie scientifiche.

Immagini di Auschwitz

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In ambito educativo, vi è un ulteriore elemento significativo, un effetto paradosso verificato proprio in ambito didattico: a un bambino può sembrare più «moderno» un reperto antico di cui vedono un’immagine digitalizzata di un reperto assai più recente di cui hanno una vecchia fotografia. Questione, nel caso della Shoah, che oltrepassa anche quella dell’impossibile riconoscimento dell’autenticità dell’immagine. E questo vale, tragicamente, anche per le immagini di Auschwitz e degli altri campi di annientamento e concentramento, in una fase, quella attuale, in cui tutti gli osservatori rilevano un negazionismo crescente. D’altronde, a meno che non si tratti di siti turistici o pubblicitari, in rete il collegamento reale tra luoghi esistenti e virtuali è sommerso tra mille «occorrenze» diverse. Sprovvisti di conoscenze il rischio è gigantesco: imbattersi e scegliere, magari solo per caso, luoghi e nomi «privi di significato».

Lo anticipava già con agghiacciante lucidità Primo Levi all’inizio di Se questo è un uomo: «Avevamo appreso con sollievo la nostra destinazione. Auschwitz: un nome privo di significato allora, e per noi; ma doveva pur corrispondere ad un luogo di questa terra».