«Un tempo quando arrivavano i banditi gli uomini di una città si univano per scacciarli». Pensa al vecchio West Tim Foley, a capo degli Arizona Border Recon, un gruppo di vigilantes incaricatisi di pattugliare il confine tra lo Stato americano e il Messico per intercettare gli «illegali» che cercano di riversarsi negli States, e soprattutto per ostacolare gli uomini dei Cartelli che gestiscono il «commercio» di esseri umani e il narcotraffico. «Teniamo in piedi la legge dove la legge non c’è più. Il confine non appartiene agli Stati Uniti: è proprietà dei Cartelli della droga».

Migliaia di chilometri a sud, nella regione messicana di Michoacàn, gli uomini di una piccola cittadina si organizzano anche loro in una formazione armata di vigilantes per cacciare gli affiliati del Cartello dei Caballero Templarios, costola di La Familia Michoacana. I narcos uccidono, stuprano, torturano e rapiscono, e oltre a controllare il passaggio della droga si sono infiltrati nelle attività legali come le coltivazioni di limoni e avocado. Per mandare un messaggio a un proprietario terriero che non li pagava, hanno ucciso tutte le persone che lavoravano nelle sue terre, compresi due bambini di appena quattro mesi. Nasce così l’Autodefensa de Michoacàn, che li stana casa per casa e fa loro una guerra senza quartiere.                                   

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Da entrambi i lati del confine dunque è la terra dei cartelli, Cartel Land, come recita il titolo del film di Matthew Heineman – produttrice esecutiva Kathryn Bigelow – vincitore per il miglior documentario e miglior fotografia al Sundance 2015, proiettato oggi a Ferrara nell’ambito della rassegna Mondovisioni, curata da CineAgenzia. Otto documentari presentati in anteprima al Festival di Internazionale e poi portati «in tour» in tutta Italia (per il programma e gli aggiornamenti www.cineagenzia.it).
Il giovane regista americano segue i due gruppi di vigilantes con una chiara domanda in mente: è giusto che dei cittadini si armino per difendersi quando il pericolo arriva fin dentro le loro case?
Molto più a nord del confine tra Messico e Arizona, a Pittsburgh, gli autori del documentario (T)ERROR Lyric Cabral e David Felix Sutcliffe seguono Saeed, un informatore sotto copertura dell’FBI in missione: deve stabilire un rapporto con un sospetto – Khalifah, americano protestante che si è convertito all’Islam con simpatie fondamentaliste – nella pratica divenuta nota come entrapment. Dopo l’11 settembre e il Patriot Act gli informatori dei federali si sono moltiplicati per la lotta al terrorismo. Saeed è stato reclutato in carcere: in cambio di uno sconto di pena – lo aspettavano 20 anni per rapina a mano armata – gli è stato chiesto di raccogliere informazioni tra le sue conoscenze, lui musulmano afroamericano con un passato di militanza nelle Pantere Nere. Appena rilasciato ha iniziato il vero e proprio lavoro sul campo, sotto copertura, che ha portato tra gli altri all’arresto del musicista jazz e esperto di arti marziali Tariq Shah, «intrappolato» appunto da un orwelliano processo alle intenzioni. Lo stesso sembra accadere con Khalifah, le cui simpatie non parrebbero avere alcun riscontro pratico.

In trappola però si trova anche Saeed, che fa i conti tutti i giorni con una vita di tradimenti e dubbi, e la cui copertura viene maldestramente fatta saltare dall’Fbi stessa. A niente servirà il fatto che l’informatore non ha raccolto nulla di concreto sul suo target: i federali lo arrestano per una foto al poligono di tiro postata su Facebook, e oggi Khalifah ha patteggiato una pena di otto anni a fronte di una condanna ancor più pesante qualora fosse stato ritenuto colpevole di aver favorito attività terroristiche.
Cartel Land e (T)ERROR rispecchiano così due facce della stessa medaglia, di un tema peraltro molto sentito e dibattuto in America: in che modo la legge e lo Stato tradiscono i cittadini, sia con una presenza oppressiva in chiaro contrasto con i diritti civili che con una criminosa assenza.
In questo senso, Cartel Land è talmente esemplare che potrebbe essere il frutto del lavoro di uno sceneggiatore: la parabola dei vigilantes di Michoacan è sfolgorante, liberano ventotto paesi, con il supporto della popolazione respingono addirittura l’esercito venuto a disarmarli, il loro carismatico e fascinoso leader, il medico Jose Mirales, diventa un idolo. E poco alla volta i loro metodi si fanno sempre più simili a quelli dei narcos: torture, esecuzioni, saccheggi.                                                                                                                                                                 

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Tornato a casa dopo che a Pittsburgh la sua copertura è saltata, Saeed ritrova finalmente il figlio, ma è tormentato da un sentimento che fa fatica ad ammettere: il rimorso per gli uomini che ha mandato in galera. «Sarà anche uscito di prigione – dice la madre di Tariq Ashah, che la ’trappola’ di Saeed ha fatto condannare a quindici anni – ma il ricordo di ciò che ci ha fatto lo farà vivere in una galera peggiore. Per questo non riesco ad odiarlo».
Attraverso i due film si dipana una serie di sconfitte: della legge, degli ideali, dei diritti civili e dello Stato, un circolo vizioso che sembra inarrestabile. Anche tra gli Arizona Border Recon, la cui paura e conseguente scelta di armarsi viene dal razzismo – «perché mischiare due razze nella stessa nazione e aspettarsi che vadano d’accordo?», chiede uno di loro – e dal risentimento personale. Tim Foley ha infatti deciso di dedicarsi al controllo della frontiera quando, racconta, lavorando come muratore si è accorto che i messicani clandestini «parassitavano» la nazione lavorando in nero senza pagare le tasse.
In mezzo al bosco, in Messico, dei cuochi di metanfetamine cucinano la droga. Ad insegnargli a farlo sono stati due americani, padre e figlio, che hanno studiato chimica. Prima lavoravano per i Templarios, oggi per i Viagras, il cartello nato dal gruppo di vigilantes di Michoacàn che hanno deciso di rispondere alla chiamata del governo e formare un regolare corpo di polizia, corrotto e colluso con i narcos. L’identificazione con gli oppressori di ieri si è finalmente compiuta: «Non c’è modo di fermare i Cartelli», dice il cuoco, il volto coperto da un passamontagna mentre mescola la metanfetamina. «Almeno per oggi, quelli fortunati siamo noi».