Quante sono le parole di cui possiamo e forse dobbiamo riappropriarci, ripulendone e decostruendone i significati dominanti? La cura, per esempio, è una di queste. Se, infatti, nel comune e un po’ confusionario immaginario viene a segnalare l’idea opprimente dell’obbligo, dello sforzo o di un’altrettanto perniciosa sindrome salvifica, oggi sappiamo che vale la pena soffermarcisi con meno pregiudizi. Soprattutto consapevoli di una storia – principalmente quella del pensiero e dei saperi delle donne – che ne può riconsegnare un senso politico vitale. Come avverte Letizia Paolozzi nel suo ultimo libro Prenditi cura (et al, pp. 80. euro 9) la partita è riaperta. Bello e agile, viene pubblicato per le edizioni et al. inaugurando «Due», la collana diretta da Liliana Rampello. È proprio l’indizio del due il misurarsi incessante nella differenza che Paolozzi sceglie per il suo saggio.
Connotata da chi ha preteso diventasse parte di un welfare ambiguo o da chi, in maniera dissennata, ha creduto potesse supplire a un certo disamore alle radici della convivenza, oggi si può ricominciare a parlare di cura. Di fatto, è già da tempo che la stessa autrice, insieme al «gruppo del mercoledì», la medita e la discute. Trascorso già un anno dall’inserto della rivista Leggendaria che riportava il documento La cura del vivere (contenuto in appendice al libro), Paolozzi con l’efficacia che contraddistingue la sua scrittura torna così su un tema spinoso per concedergli ulteriori aperture. Prenditi cura prende avvio proprio dagli incontri che hanno preceduto e succeduto la riflessione con il gruppo romano. Il titolo è un suggerimento verso chi, tenendo sempre presente la libertà femminile come punto fermo e non negoziabile, desidera fare della cura un orizzonte politico e di esistenza possibile. A ben pensarci, è una posizione radicale che modifica una volta per tutte la visione del mondo e dei rapporti che lo abitano. Il carattere forzoso e oblativo viene smontato, così come l’apparente ambivalenza tra libertà e dipendenza; su quest’ultima si dovrebbe mostrare un po’ di indulgenza verso se stessi e comprendere, come suggerisce l’autrice attraverso Hannah Arendt, che non vi è una mai un’indipendenza da tutto e da tutti. Viene invece fatto ordine su una discussione che non concerne più una femminilità di servizio, piuttosto rilancia buone pratiche per un presente dotato di un qualche senso. Il primo che viene rintracciato è quello delle relazioni tra donne e uomini nel solco di una interrogazione che dura da anni; come quella citata, per esempio, del gruppo Identità e differenza di Adriana Sbrogiò e Marco Cazzaniga. Da Torreglia a Reggio Emilia e Correggio, passando per Milano, Roma e Paestum sono tante le tappe del viaggio descritto da Letizia Paolozzi con volti, parole e dissomiglianze per parlare di lavoro, ambiente, relazioni come altrettante modalità di scrutare il mondo, giacché è chiaro: la cura è l’altro nome dell’attenzione. Certo, esaminando la sua storia etimologica ci si renderebbe conto di quanti e quali significati custodisca. Dall’accudimento alla sollecitudine, passando per il cuore e l’inquietudine fino ad arrivare al guardare. La cura allora si può forse interpretare con la capacità di osservare, nello stesso tempo, il dettaglio e l’intero. Non è un martorio, al contrario è un sapere di sé e dell’altro, che accresce e che comporta una condivisione profonda. E dal confronto andrebbe, appunto, ridiscussa per fare arretrare la sciatteria, cifra che articola tanta politica ma anche tanta relazionalità contemporanea.
Privo di sistematicità, il libro di Letizia Paolozzi è soprattutto la restituzione meditata di dibattiti e incontri in presenza. Dice pure che sia donne che uomini raccontano un conflitto. Tuttavia «se gli uni dovrebbero aprirlo con se stessi e con la società, per le altre invece si tratta di porre un limite a quel ’troppo’ di slancio che mettono nelle relazioni fino a rinunciare a se stesse». Eppure c’è una novità sostanziale, passata nella storia della cultura e sul piano del simbolico, che ha fatto sì che le donne riuscissero a riappropriarsi della cura non più intesa come un costrutto ingombrante, fonte di molesta preoccupazione. Un guadagno che ha a che vedere con la consapevolezza di una posta in gioco più alta ed estesa: quella del buon vivere. Il «di più» ha una doppia sembianza: è valore aggiunto dell’autenticità ma è anche un «troppo» che, se non sorvegliato, rischia di affliggere.
Ribaltamento di una disaffezione pervasiva, la cura interroga il presente della politica, delle nostre relazioni e del mondo. Non come una pratica che si scaglia contro qualcosa, bensì come la possibilità attiva e incarnata della resistenza e della riparazione. E poi, come propone Paolozzi, «se provassimo a fare della cura un punto di appoggio per rinnovare i comportamenti? Purché non si torni a quell’obbligo di natura, una specie di lettera scarlatta, appiccicata sulla fronte delle donne. Bisogna, piuttosto, provocare delle incursioni nel presente, nominando quali sono le condizioni da porre, i conflitti da aprire: quale forma di civiltà dei rapporti vogliamo». In questo cambiamento già in atto, che la cura sia tornata a far parlare di sé pare, infine, decisivo. Perché possiamo assumerla come una semantica della generosità, dovuta prima di tutto a ciascuna e ciascuno di noi e tramutarla in apprendistato capace – nella sua circolarità – di disfare l’accerchiamento del potere.