Di Alice Ceresa, scomparsa il 22 dicembre del 2001 a Roma all’età di 78 anni, rimangono alcuni fra gli scritti più taglienti e adamantini che la letteratura italiana abbia conosciuto. «Il carattere del secolo si è distillato in lei senza nessuna ombra».
È ciò che pensa Patrizia Zappa Mulas a proposito di Alice Ceresa, scrittrice nomade e imprendibile nata a Basilea, trasferitasi dal 1950 a Roma, «la sua si potrebbe considerare una fenomenologia poetica di alcune emozioni e affezioni di base»

Il carattere del secolo prende così le sembianze di una figura minuta, sfuggente la mondanità e i cliché dei salotti letterari a lei contemporanei, e si orienta in una parola severa, esplosiva e senza piaggerie. Laboriose mappature del Novecento letterario e politico, i pochi testi che sono stati pubblicati mostrano che a essere distillata è la rappresentazione di un mondo da rovesciare nella piena assunzione di alcune e precise idee, principalmente incarnate dalla propria differenza sessuale. Muoversi nel teatro della coscienza, operazione complessa e difficile, ha significato così per Alice Ceresa costanti contrattazioni anzitutto con se stessa, «nata già emigrata» come si definiva lei stessa e capace di abitare magistralmente sia la lingua italiana sia quella tedesca.

Oltre la famiglia borghese
Quando nel 1967 viene pubblicato La figlia prodiga che inaugura la collana di ricerca letteraria di Einaudi diretta da Guido Davico Bonino, Giorgio Manganelli e Edoardo Sanguineti, Ceresa ha già al suo attivo diversi articoli e interventi per esempio in Die Weltwoche, Tempo presente, Botteghe oscure, Tuttestorie. Le sue interlocuzioni, da Maria Corti a Luigi Comencini, Franco Fortini, Toti Scialoja, Italo Calvino, Giorgio Parise ed Elio Vittorini, ma anche il Gruppo ’63, stanno a indicare un profilo letterario composito e cruciale.

Eppure è stato l’interesse verso il femminismo, continuamente perimetrato, che le ha posto gli interrogativi sostanziali. Andare al cuore della struttura letteraria e della struttura socio-politica per Alice Ceresa sono state due parti di uno stesso fondamentale ragionamento che ha preso avvio da una critica alla famiglia borghese e patriarcale.

Come nel libro del 1967 (premio Viareggio Opera Prima), anche nel lungo racconto La morte del padre, apparso nel 1979 in Nuovi Argomenti (e nel 2013 per et al.) e Bambine (Einaudi, 1990) – tutti e tre ristampati nel 2004 in un unico volume per La Tartaruga – il punto critico è sempre la famiglia, in cui i nomi propri lasciano il posto ai posizionamenti relazionali all’interno di essa. Decostruzione sontuosa da parte di una parola sediziosa che attenta ai luoghi comuni concettuali della società e della letteratura, quella della figlia prodiga è parabola di rivoluzione che punta allo smascheramento del sistema patriarcale. Per farlo fuori, definitivamente. La dilapidazione del patrimonio è dunque il rifiuto massimo dell’ordine costituito, della coercizione alla scelta impositiva di acquisire identità avariate d’accatto e seguire strade servili e moderate già percorse.

La figlia prodiga non è un romanzo, non è neanche un saggio, è piuttosto un’anomalia da meditare con cura, una sperimentazione in cui la protagonista «sperpera un patrimonio di secoli e di effettive ricchezze, rimanendo a mani vuote, vale a dire senza più un «posto» codificato nella società. Il libro è la descrizione dettagliata – benché astratta – di questo sperpero… vale a dire che il personaggio è consapevole della ambiguità e malvagità del lavoro di detrazione che compie. Con le proprie formule la società le pone automaticamente un aut aut: o entrare nel gioco contentandosi di «non essere» come entità autonoma, pensante e soggettiva, oppure passare alla rivolta necessariamente subdola, interiore e solitaria».
La prodigalità ceresiana ha anticipato ciò che da lì a poco sarebbe accaduto, gli anni settanta insieme alla lotta di molte altre figlie prodighe e la successiva scelta della libertà a dispetto del copione che si sarebbe dovuto interpretare.

Relazioni pericolose
Al cuore della famiglia che «infine esploderà» punta anche La morte del padre, racconto scritto quasi di getto nella casa d’infanzia di Cama nei giorni successivi alla morte del padre della scrittrice, lo stesso padre a cui nel 1940 invia una lettera in cui dichiara il proprio amore nei confronti della letteratura. Il congedo dal padre è tuttavia anche il pretesto per indagare il territorio della perdita, della trasformazione dei corpi e dell’ossessione che Ceresa aveva nei confronti delle singole pieghe del divenire altro.

Così il lutto per lo stordimento affettivo lascia immediatamente il posto a una più alta – e magnifica – dislocazione che assume un senso politico. Quando cioè si trova il coraggio per dire a se stesse «Che cosa è mai un padre se non una imposizione di comportamenti, recepito conseguenzialmente e senza alcuna particolare attenzione: eppure è con questi vuoti connotati che si trasferisce senza ricorso nella vita dei figli».

In questo senso andrebbe riletto anche Bambine, imperdibile spaccato delle dinamiche relazionali e in particolar modo familiari. E anche il Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile (Nottetempo 2007) pubblicato postumo a cura di Tatiana Crivelli con la postfazione di Jacqueline Risset. In quel lavoro, cominciato agli inizi degli anni settanta e mai portato a termine, si vorrebbe rendere conto di un abbecedario politicamente parlante. Come ricorda Crivelli infatti sono la fragilità e il potere di ogni codificazione fissa, legislativa, sessuale, familiare, che Ceresa avrebbe voluto scardinare «mettendo a nudo gli inganni della funzione definitoria della lingua, utilizzando dunque proprio un dizionario, il definitore per eccellenza, per smascherare la vuota concettosità della normatività linguistica».

Il fondo privato delle numerosissime carte, edite e inedite, di Alice Ceresa – il cui lascito è curato da Barbara Fittipaldi – è conservato presso l’Archivio svizzero di Letteratura della Biblioteca di Berna.