In inglese il lavorare gratis si traduce con free labour, un’espressione che significa sia lavoro gratuito che lavoro libero, trattenendo tutta l’ambiguità che accompagna le condizioni di vita e lavoro di chi opera nel settore dell’arte contemporanea. C’è un’obiezione frequente quando si parla di lavoro gratuito e di arte che bisogna prendere sul serio, in parte per confutarla, in parte per scovarne i meriti. Mi riferisco al commento, sentito tante volte in situazioni informali ma anche in alcune sedi più ufficiali, secondo il quale l’arte non è propriamente un lavoro. Iniziamo con l’esaminare l’assunto nascosto in questa critica mossa a chi, occupandosi d’arte come artista, curatore, critico, educatore o altro, non riesce guadagnarsi da vivere in maniera dignitosa. Il primo mito da sfatare è che si tratti di un’attività marginale, per pochi appassionati. Sussiste la percezione diffusa che la pratica artistica sia solo per ceti sociali «alti», e che quindi la questione del lavoro gratuito rimanga una problematica tutto sommato superficiale. È importante, invece, sottolineare come questa retorica sia falsa e dannosa.

A partire dalla metà degli anni Novanta, infatti, in Europa ha iniziato a diffondersi il modello di sviluppo economico delle cosiddette «industrie creative». Si tratta di un modello che ha attratto e reclutato una forza lavoro trasversale alle classi sociali, incoraggiando i giovani a perseguire una carriera che li portasse a sviluppare le competenze per poter interpretare i linguaggi creativi internazionali, ricombinandoli come fonte di innovazione per il paese. In parallelo, il numero degli iscritti a corsi di formazione artistica e creativa ha continuato a crescere a livello europeo, coinvolgendo, fin quando i costi dell’istruzione superiore sono stati accessibili, diverse classi sociali (Unesco; Eurostat). Nonostante l’entusiasmo di molti governi per la retorica delle «industrie creative», tuttavia, il reddito e la stabilità contrattuale di chi lavora nel settore restano tutt’ora significativamente più bassi rispetto a professioni comparabili, sia nell’Unione Europea (Eurostat 2011), che in Australia (Australian Art Council, 2014) e Stati Uniti (Bls, 2013).

Una potente economia

Il secondo punto da confutare è che l’arte contemporanea sia un settore scarsamente redditizio o poco rilevante per l’economia. La rivista Forbes nel 2012 ha dichiarato il mercato dell’arte «l’economia più forte del mondo». Il mercato dell’arte contemporanea ha raddoppiato il suo valore negli anni 2007-2008, e dopo la crisi finanziaria, si è ripreso a tempi di record, raggiungendo i 2.046 miliardi di dollari nel 2013, il 40% in più rispetto all’anno precedente (ArtPrice Report, 2013). E questa cifra si limita alle vendite a collezionisti tramite aste, senza contare le transazioni tra privati, gli introiti di musei, biennali, festival, e mostre itineranti, e l’indotto indiretto generato dal turismo culturale e dal merchandising. Se è vero come dice Okwui Enwezor, curatore della prossima Biennale di Venezia, che il mercato è solo una componente dell’arte contemporanea, è anche vero che si ragiona forse troppo poco sulla relazione esistente tra questo e le altre componenti.

Oltre che falsa, la percezione diffusa che l’arte e la cultura contemporanea siano questioni elitarie è dannosa perché riproduce una visione del fare arte come attività per pochi, rischiando di consegnare la cultura nelle mani di coloro che condividono questa impostazione dal momento che li favorisce, contribuendo al loro status sociale. Ed è proprio il dilagare del free labour ad assumere un ruolo strategico in questa tendenza di estrema polarizzazione, sbarrando l’ingresso a quanti non possono permettersi di lavorare gratis. Per potersi riappropriare della cultura contemporanea è proprio dal free labour che si potrebbe ripartire, comprendendone i meccanismi di funzionamento nelle due forme più diffuse di stage e iperlavoro.

Con gli stage, l’esperienza del free labour emerge come rito di passaggio obbligatorio durante il periodo di formazione, sotto forma di prestazioni non retribuite in cambio di una promessa di visibilità futura. Un sistema che chiede ai giovani (e in particolare a giovani donne, la maggioranza degli studenti nel settore arte) il prezzo più alto.

Riti di iniziazione

Nonostante il nome «stage» evochi il gradino di un percorso, esso è sempre di più una condizione ciclica e obbligatoria per i creativi. È ormai considerato normale avere in curriculum tre, quattro, cinque stage prima di poter essere considerata per qualche ingaggio pagato. Inoltre molte opportunità di stage si trovano in metropoli internazionali (e per questo, tanti sono costretti a migrare verso il nord del mondo) dove il costo della vita è alto e dove gli stagisti devono trovare un secondo impiego per potersi mantenere. Tuttavia, questi stagisti non solo tengono in piedi un settore dal quale sistematicamente vengono sottratte risorse pubbliche, ma contribuiscono anche al valore del brand delle università e delle scuole specialistiche (spesso a pagamento) che li dovrebbero formare. Questi centri di formazione stipulano spesso accordi con istituzioni culturali, festival o musei per garantire l’esclusivo accesso agli stage ai loro studenti.

Ma che cosa dovrebbe insegnare lo stage agli aspiranti artisti e creativi? Come racconta l’inchiesta del «Carrot Workers Collective» di Londra, ci sono due principali esperienze nel settore artistico, entrambe assai problematiche. Nel primo caso le mansioni richieste sono di lavoro dequalificato o apertamente servile. Lo stagista porta il caffè, va in tintoria e porta a passeggio il cane del curatore, sorveglia le sale espositive, attacca i francobolli per gli inviti ai vernissage. Ciò che si impara durante lo stage è la propria vulnerabilità di fronte al potere di chi controlla gli spazi di visibilità. Si impara a dissimulare la frustrazione di fronte ai propri capi, ci si allena a prevaricare i compagni e ad approfittare opportunisticamente di ogni occasione.

C’è poi un secondo tipo di stage dove, al contrario, ai nuovi è richiesto un contributo creativo di alto livello, un’idea artistica originale, la curatela di un evento, una soluzione di design innovativa, la scrittura di un testo per un catalogo, il montaggio di un video. Anche se la stagista tornerà a casa più contenta dello stagista-servo, questo caso è ancora più problematico proprio perché lo stage ha insegnato che la gratificazione dovrebbe bastare come compenso e che bisogna dire di sì a qualunque invito se questo «fa curriculum». Questo meccanismo agisce malignamente in un contesto in cui spesso sono i giovani ad essere portatori delle idee e competenze più preziose, in un mercato che si nutre di novità, più che di esperienza, per produrre valore.

Il ruolo degli stagisti è cruciale anche per mantenere docili e iperproduttivi i lavoratori dell’arte sempre più precarizzati e minacciati di essere rimpiazzati da qualcuno disponibile a svolgere le loro stesse mansioni gratuitamente. Oltre ad essere un efficace dispositivo di disciplina, il ruolo del lavoro gratuito nell’arte ha però altri effetti nocivi. Il suo massiccio impiego ha reso impercettibile la sistematica riduzione di risorse pubbliche nel settore culturale. Molti finanziamenti erogati per iniziative artistiche non prevedono nemmeno più la voce di spesa per i compensi al personale. Il contributo gratuito di stagisti e volontari e l’iperproduttività dei lavoratori sopperiscono alla mancanza di risorse, all’interno di una retorica del sacrificio in nome della cultura.

Inoltre, il mercato dell’arte attraverso il meccanismo del free labour impone ai lavoratori un crescente ribasso dei compensi: oggi vivere solamente di arte contemporanea è assai raro. Molti che si trovano in questa situazione ricorrono a una strategia di sdoppiamento. Da un lato si continua a portare avanti la propria pratica artistica, a promuoverla, a fare networking; dall’altro si cercano fonti di guadagno alternative per rendere tutto ciò sostenibile. Secondo una recente inchiesta sugli artisti nel Regno Unito, un’alta percentuale smette intorno ai 45 anni o alla nascita del primo figlio (Nesta, 2008). Spesso questo secondo lavoro, di cui si parla malvolentieri, consiste in un impiego nelle stesse industrie culturali e creative in mansioni che non hanno nulla di creativo (amministrativi, guide, installatori, ecc.). Anche se pagati meno di ruoli equivalenti in altri settori, questi ingaggi permettono di continuare a sentirsi parte della «scena», individuata dal sociologo Pascal Gielen come la nuova unità di produzione del capitale semiotico. Tuttavia, frequentare la «scena» non è importante solo per una questione di appartenenza identitaria: come fa notare Gielen, è anche l’unico modo per tutelare le proprie idee e impedirne l’appropriazione da parte di altri più affermati.

Uno sdoppiamento ancora più radicale colpisce quanti ripiegano su un secondo lavoro estraneo alle industrie creative. Questa situazione porta a uno scollamento tra la percezione della propria identità (sono un curatore, un videomaker, un performer) e il profilo professionale per cui si viene pagati. Dal punto di vista contributivo, molti artisti e creativi sono in realtà lavoratori del settore terziario. Tuttavia, siccome non si identificano come tali, finiscono con il fornire una mano d’opera transitoria e disinteressata a rivendicare i propri diritti, in attesa di essere «scoperti» dal sistema artistico.

Pratiche di autorganizzazione

Nelle industrie culturali si sperimentano nuovi meccanismi di sfruttamento della totalità della vita, ma proprio in questi ambiti emergono forme di resistenza che possono offrire spunti utili per una riflessione più allargata sul lavoro stesso. Negli ultimi anni sono nate in vari paesi pratiche collettive che denunciavano l’insostenibilità del free labour. Alcune di queste, come «A/traversad*s por la Cultura» in Spagna o «Cantieri per pratiche non affermative» in Italia, sono partite da percorsi di inchiesta per sopperire alla carenza di statistiche ufficiali sul tema del lavoro gratuito. I «Precarious Workers Brigade» e i «Future Interns» nel Regno Unito si sono invece concentrati sullo «stagismo» e sul ruolo dei processi pedagogici nel riprodurre miti quali l’artista/genio/bohémien o l’«artista/imprenditore di se stesso». Altre esperienze invece hanno affrontato il lavoro gratuito come parte di una lotta più estesa contro lo sfruttamento strutturale che contrappone, nel «sistema arte», il lusso dei vertici alla pauperizzazione della base. Sono questi i casi di W.A.G.E. negli Stati Uniti che ha creato un marchio di certificazione etica per iniziative culturali che pagano equamente i propri collaboratori; di «Trabajadores de Arte», una rete che riunisce artisti in sette paesi latinoamericani fornendo strumenti per calcolare compensi equi; e la piattaforma ArtLeaks, impegnata a pubblicare in forma anonima segnalazioni di abuso e sfruttamento.

Nonostante i diversi livelli di successo, queste pratiche contribuiscono a scalfire la patologica divisione tra contenuti «critici» e forme organizzative in ambito artistico. Il loro aspetto più interessante risiede nella capacità di porre il problema del lavoro non in chiave corporativia o professionalizzante, ma in quanto limite strutturale alle possibilità di superare le ingiustizie dell’ordine sociale esistente. Un’importante fonte di ispirazione è stata la protesta degli «Intermittenti dello Spettacolo» francesi, che nel 2003 furono tra i primi a mobilitarsi contro le condizioni di ricatto in cui si stava riorganizzando il settore culturale in Europa e a capire come questo rappresentasse un attacco al sistema di welfare per tutti. Nel rifiutarsi di porre la questione del free labour solo in termini di precarietà e mancato reddito, queste pratiche di ribellione tematizzano la contraddizione tra la libertà promessa dal free labour e il lavoro. Forse proprio a causa della tensione tra arte intesa come rifiuto del lavoro e arte come professione, le esperienze di lotta in questo ambito hanno spinto molto più di altre sull’urgenza di alzare la posta in gioco, di ribellarsi non solo alle condizioni contrattuali ma al lavoro stesso. La scommessa che si nasconde nell’affermazione che l’arte non è proprio un lavoro è saper immaginare la potenza delle pratiche, non solo artistiche, ma anche di cura, di cooperazione e d’invenzione, una volta liberate dalla scarsità artificiale e dall’ansia esistenziale che, nella logica lavorativa, le sfigurano.

5) continua. I precendenti articoli sono stati pubblicati il 22 (http://ilmanifesto.it/leconomia-politica-della-promessa/), il 25 (http://ilmanifesto.it/i-sogni-infranti-dei-free-lance/), il 29 (http://ilmanifesto.it/i-sommersi-dellaccademia/) ottobre e il 1 Novembre (http://ilmanifesto.it/expo-2015-i-dannati-dellevento/)