Qual’è il geometra che tutto s’affigge, per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond’elli indige. Tal’era io a quella vista nova, veder voleva come si convenne, l’imago al cerchio e come vi s’indova. Ma non eran da ciò le proprie penne, se non che la mia mente fu percossa, da un fulgor in che sua voglia venne. A l’alta fantasia qui mancò possa, ma già volgeva il mio disìo e ‘l velle, sì come rota ch’igualmente è mossa. L’amor che move il sole e l’altre stelle.

Con queste terzine termina il Paradiso nella Divina Commedia, paragonando la visione di Dio, o meglio la sua ineffabile descrizione, al problema, allora come ora geometricamente insoluto, della cosiddetta «quadratura del cerchio». Nel viaggio iniziatico verso la visione dell’Invisibile, Dante viene condotto da Beatrice, l’angelicata figura che lo accompagna sino ai margini della fonte che irraggia «l’amor che move il sole e l’altre stelle».

Ma, a questo punto, di fronte alla visione suprema, la mente del poeta vacilla, le parole gli mancano: ecco allora Dante ricorrere alla costumanza di affrontare questioni di alto livello teologico e filosofico con paragoni tratti dalla geometria o dalla matematica, pratica antica quanto la storia del pensiero stesso. A partire da Pitagora sino ai giorni nostri, infatti, questa forma di «immaginazione materiale» di tipo analogico, come direbbe Gaston Bachelard, ha accompagnato le menti sulle strade del pensiero più astratto, cercando di renderlo visibile attraverso figure solide.

E il solido più allusivo e per così dire proiettivo, è certamente la sfera, utilizzata nella storia del pensiero, tra le altre, come metafora della divinità.

«Forse la Storia universale è quella della diversa intonazione di alcune metafore»; così Borges opina su una delle suggestioni certo a lui più care: quella della possibilità di tracciare un compendio esaustivo delle portanti immaginali che hanno determinato la vita degli uomini nel loro divenire storico. Tra queste metafore, parola la cui etimologia dispiega pienamente la sua forza evocativa – dal greco meta-foreo, cioè trasportare oltre – una rientra magistralmente tra le costanti che compongono il catasto borghesiano della Storia universale: Dio come sfera infinita.

L’Aleph e Senofane di Colofone

Ma da dove trae lo scrittore argentino questa suggestione? La storia dell’immagine di Dio come sfera infinita la troviamo per la prima volta nel celebre racconto breve l’Aleph. Come nella terzina dantesca è ancora una volta l’amore che attira verso questa metafora universale. È Beatriz Viterbo, infatti – un’altra Beatrice! – a spingere l’autore, che nel racconto parla in prima persona – «sono io, Borges» dirà ad un certo punto guardando il ritratto dell’amata morta dopo una feroce agonia – verso la casa di lei in via Garay, nel cui scantinato vede l’Aleph, nell’ormai lontano aprile del 1941. La casa ora non esiste più; sappiamo dal racconto (autobiografico?) che venne demolita pochi mesi dopo, forse per essere poi inglobata nel caffè Zimino e Zungri, e chiunque di noi l’abbia cercata, ripercorrendo la via e cercandone le tracce, si è sentito rispondere con un sorriso tipicamente portegño che, come sosteneva lo stesso Borges, esso è dappertutto, e dunque contemporaneamente in ogni luogo ed ogni tempo. Chi scrive, ad esempio, posò l’orecchio sulle maestose colonne della Moschera di Amr al Cairo per sentirne il favoloso ronzio cosmico. Anche nel nostro Paese ci sono alcuni Aleph: nella chiesa ravennate di S. Apollinare nuovo, ad esempio, le colonne che si trovano sotto il mosaico della presentazione dei re magi appaiono curiosamente consumate ed annerite dall’uso circa all’altezza di una testa umana; se qui si pone l’orecchio si sentirà il battito del proprio cuore echeggiare attraverso tutta la basilica come in un vuoto cosmico che rimanda il rumore originario del non creato ancora, del nostro esserci nel tempo e dello spazio prima della nascita del tempo e dello spazio.

Ecco dunque Borges vedere la Storia Universale attraverso la piccola sfera luminosa (o forse sarebbe meglio dire numinosa?) dell’Aleph posta all’altezza del diciannovesimo gradino che conduce verso l’oscurità di quell’antica cantina. L’Aleph corrisponde notoriamente alla prima lettera dell’alfabeto ebraico e, nella Cabala dello Zohar, all’Ein-Sof cioè a Dio prima delle sua manifestazione.

Ed ecco che, come per Dante, al momento della descrizione, allo scrittore vengono meno le parole, ed anch’egli si deve abbassare all’umiliazione delle metafore e delle immagini analogiche: «I mistici, in simili circostanze, son prodighi di emblemi: per significare la divinità, un persiano parla d’un uccello che in qualche modo è tutti gli uccelli; Alanus de Insulis, d’una sfera di cui il centro è dappertutto e la circonferenza in nessun luogo. Ezechiele di un angelo con quattro volti che si dirige contemporaneamente a Oriente e a Occidente, a Nord e a Sud. (Non invano ricordo codeste inconcepibili analogie; esse hanno una qualche relazione con l’Aleph). Forse gli dei non mi negherebbero la scoperta d’una immagine equivalente, ma questa relazione resterebbe contaminata di letteratura, di falsità. D’altronde, il problema centrale resta insolubile: l’enumerazione, sia pure parziale, d’un insieme infinito».

In queste prime righe troviamo, in nuce, tutti gli elementi che verranno poi sviluppati nel saggio contenuto in Altre Inquisizioni, dove egli riprende la cronologia di questa Immagine Universale. Qui Borges fa iniziare la sua storia da Senofane di Colofone, rapsodo del VI secolo a.C. che, stanco della versione antropomorfa degli dei cantati da Omero, propose ai Greci di considerare un dio unico inteso come sfera infinita. Qualche anno dopo sarà uno dei «filosofi sovraumani», come li definisce Giorgio Colli nel suo omonimo libro sui presocratici, Parmenide, ad argomentare che l’Essere Finito, per i Greci infatti finito era sinonimo di perfezione, è una sfera. Un concetto che trova una sua presenza centrale anche nell’Induismo e soprattutto nel Taoismo, filosofie non a caso lontanissime nello spazio, ma coeve al tempo del pensatore di Elea. Nel suo poema in esametri intitolato Sulla natura, che ne descrive il viaggio immaginale verso l’essenza della Verità, essa viene descritta come strutturalmente sferica: «cuore inconcusso della ben rotonda verità» dice Parmenide. In un frammento riportato dallo scettico Sesto Empirico, nella sua opera Contro i matematici, Parmenide afferma che: «l’Essere è compiuto da ogni lato simile alla massa di una sfera rotonda, di uguale forza dal centro in tutte le direzioni; che egli infatti non sia né un po’ più grande né un po’ più debole qui o lì è necessario».

Ricorda Borges come autorevoli commentatori, come Mondolfo nel suo La filosofia dei Greci, e Calogero nella Storia della logica antica, sostengono che così egli non solo intuì una sfera infinita nella sua perfezione, ma che a questa immagine geometrica diede una valenza dinamica, espansiva, di un qualcosa in infinito aumento, come riecheggerà anche nel passo del Timeo platonico.

L’Essere dunque per Parmenide, oltre ad essere – il non essere infatti non è poiché non ha ragione di esistere – assume questa forma di sfera finita ed in se stessa conchiusa: «l’Essere assomiglia al volume di una sfera perfettamente rotonda, la cui forza è costante dal centro in qualunque direzione».

Anche Empedocle di Agrigento, altro «filosofo sovraumano», intendendo con questi coloro che prima di veri e propri filosofi erano ancora annoverabili tra i sapienti, parla della sfera (in)finita, secondo lui formata dall’essenza dei quattro elementi, i rizomata, che compongono tutte le cose combinandosi insieme: «Lo Sphairos rotondo che esulta nella sua solitudine circolare». Empedocle era considerato un vero e proprio mago. Leggendaria la sua fine suicida nell’Etna, così da potersi totalmente decomporre nei rizomata e rinascere totalmente in altra forma.

Platone

La figura della sfera come solido perfetto ed uniforme la ritroveremo qualche secolo dopo nel pensiero di Platone, in cui l’analogia originaria si arricchisce delle riflessioni del grande filosofo. Per Platone la sfera è perfetta poiché tutti i punti distano egualmente dal suo centro, concetto che fa dire a Olof Gigon, nel suo libro sulla filosofia greca, che Senofane aveva parlato metaforicamente, paragonando Dio a questo solido.

Così Platone, nel Timeo (VIII) spiega perché la sfera sia la forma perfetta e divina: «Il Demiurgo formò un corpo levigato ed omogeneo in tutti i punti equidistanti dal centro, e intero e perfetto, risultante da corpi perfetti, e postavi nel mezzo un’anima, non soltanto ve la distese interamente, ma con essa lo avviluppò anche al di fuori, e così formò un cielo circolare, che si muove circolarmente, unico e solitario, ma per propria virtù autorigenerantesi, non bisognoso di nessun altro, e capace di conoscere e amare a sufficienza se stesso. E per tutte queste ragioni il Demiurgo lo generò».

Qui vediamo come il pensiero della sfera, in Platone ma in generale in tutti i suoi contemporanei, fosse di tipo euclideo, legato cioè al concetto fondamentale sul quale si fondavano le definizioni e le argomentazioni geometriche, che era quello di «distanza», perché direttamente sperimentabile nel mondo fisico.

Ragioni analoghe hanno spinto i pensatori neoplatonici a ritenere perfetto il moto circolare. Scrive Plotino nelle Enneadi (II, 2-1): «Perché [il cielo] si muove di moto circolare? Perché imita l’intelligenza. […] In un cerchio il centro naturalmente è immobile, ma se anche la circonferenza fosse tale, sarebbe un immenso centro. Essa girerà piuttosto intorno al suo centro».

Da questi pensieri, soprattutto quelli platonici inerenti l’autosufficienza della Sfera Divina, si capisce bene, come vedremo tra poco, come il cristianesimo medioevale abbia attinto a piene mani dal filosofo per cristianizzarne il pensiero attribuendo le stesse caratteristiche alla sua divinità.

Ermete Trismegisto ed il Corpus hermeticum

Sul pavimento del Duomo di Siena, la prima scena davanti al portale centrale, dove si trova anche l’iscrizione «Castissimum virginis templus caste memento ingredi», (ricordati di entrare castamente nel castissimo tempio della Vergine), raffigura Ermete Mercurio Trismegisto, leggendaria figura di origine egizia, ritenuto il depositario dell’intera sapienza antica. Come spiega il cartiglio ai suoi piedi era considerato contemporaneo del biblico patriarca Mosè: «Hermis mercurius trismegistus contemporaneus Moysi». Sul mosaico pavimentale viene rappresentato come un saggio orientale nell’atto di offrire ad altri due uomini con la mano destra un libro, mentre con la sinistra si appoggia ad una citazione scritta su una lapide sostenuta da due sfingi alate, simboli della conoscenza esoterica. I due uomini, in atteggiamento deferente, sono vestiti in foggia tale da far pensare forse alle tipizzazioni dei saggi d’Oriente e d’Occidente. Nella tabella si legge: «Deus amnium creator secum deum fecit visibilem et hunc fuit primum et solum quo oblectatus est et valde amavit proprium filium qui appellatur sanctum verbum», (Dio creatore di tutte le cose, fece un altro Dio visibile e questo fu il primo e il solo nel quale si dilettò e amò suo figlio, che fu chiamato Santo Verbo, infinitamente).

È un’allusione alla nascita del Salvatore come «Sanctum Verbum» e questa profezia è un brano del Pimander, uno dei primi testi del Corpus Hermeticum tradotti da Marsilio Ficino.

Il Corpus è un insieme di frammenti probabilmente risalenti ad epoche molto diverse tra di loro. Anche Plotino ne parla, attribuendo ad Ermete Trismegisto l’immagine di Dio come una sfera infinita, o dinamicamente tendente all’infinito, come il pensiero presocratico lascia intendere. L’immagine, infatti, riaffiorata più volte negli scritti ermetici, il cui Corpus si è di continuo ampliato a partire dal III secolo d.C., compendiando la sapienza antica. Secondo i sacerdoti di Thot, che è anche Ermes, il sapiente avrebbe scritto 36.525 libri; Giamblico, nel suo I misteri dell’Egitto diminuì, nel tentativo di rendere credibili questi dati, il novero dei volumi a 20.000 e Clemente Alessandrino, nei suoi Stromata, li ridusse ulteriormente a 42.

Marsilio Ficino, il grande neoplatonico rinascimentale, indicava Orfeo, Pitagora e Platone come i più tardi rappresentanti della sapienza antica contenuta nel Corpus. Il testo, come lo conosciamo oggi, si pensa che risalga al 1050 circa, periodo in cui fu assemblato e sistematizzato da Michele Psello, studioso bizantino che però, probabilmente, rimosse dal testo gli elementi strettamente magici e alchemici, rendendolo così più accettabile per la Chiesa ortodossa. Come molti testi dell’antichità pagana anche il Corpus venne utilizzato per dimostrare una sorta di visione profetica dei maggiori sapienti che avrebbero, in qualche modo, ricevuto una visione divina prima dell’Era cristiana propriamente detta.

L’esistenza del testo venne probabilmente resa nota in Occidente, insieme a quella di altri libri antichi ancora sconosciuti, in occasione del Concilio che avrebbe dovuto sanare lo scisma d’Oriente, tenutosi a Firenze ad opera di Cosimo de’ Medici nel 1438. In questa occasione l’imperatore Giovanni VIII Paleologo ed il Patriarca di Costantinopoli Gennadio II, arrivarono in Italia con un seguito di 650 fra studiosi, eruditi e ecclesiastici. Per dirimere le questioni dottrinali le affermazioni contenute nel Corpus erano importanti, proprio perché risalivano ad un periodo di molto anteriore allo scisma, affermando l’unicità di Dio e dunque l’unità dei cristiani in lui. Com’è noto il Concilio fallì il suo scopo poiché sia i credenti sia il basso clero non riconobbero l’autorevolezza dei loro rappresentanti, ma il Corpus era oramai un testo noto ed intrigante, tanto che nel 1460 Cosimo riuscì ad avere la copia originale, appartenuta a Michele Psello, attraverso il monaco italiano Leonardo da Pistoia che l’aveva scoperta (trafugata?) poco tempo prima in Macedonia. Cosimo ordinò dunque a Marsilio Ficino di tradurlo. Il lavoro venne completato nell’aprile del 1463 e venne compensato con una villa a Careggi.

A noi dunque, di questa sconfinata opera, non restano che dei frammenti. In uno di questi, l’Asclepio, troviamo la seguente formula, evidenziata per la prima volta dal teologo francese Alain de Lille, Alanus de Insulis, sul finire del XII secolo, citato da Borges nell’Aleph: «Dio è una sfera intellegibile, il cui centro è in ogni parte e la cui circonferenza è inaccessibile».

Questa immagine, elaborazione di quelle precedenti sulla natura di Dio come sfera infinita, non verrà dimenticata nel tempo, e sarà oggetto di lunghe dispute. Borges ci ricorda che per Aristotele una formula siffatta era decisamente una contradictio in adjecto, ossimorica, poiché in tale proposizione soggetto e predicato si annullano contraddicendosi. Ciò può anche essere vero, grammaticamente parlando, tuttavia la formula dei libri ermetici ci lascia, quasi, intuire l’infinità di quella sfera.

Nel secolo XIII l’immagine ricompare nel Romanzo della rosa che la attribuisce a Platone, e nell’enciclopedia Speculum Triplex sempre – e soltanto! – citata da Borges. Da parte nostra azzardiamo che l’autore argentino abbia voluto racchiudere nella dizione di Triplice Specchio le tre opere di Vincent di Beauvais che, nella seconda metà del XIII secolo, scrisse i tre volumi dei suoi Speculum Naturale, Speculum Doctrinale e Speculum Historiale. Nel secolo XVI l’ultimo capitolo del Pantagruel, romanzo dalle indubbie ascendenze esoteriche, allude a «quella sfera intellettuale, il cui centro sta dappertutto e la cui circonferenza in nessun luogo, che chiamiamo Dio».

Il libro dei 24 filosofi

Ma è con il Libro dei ventiquattro filosofi che l’immagine di Dio come sfera infinita il cui centro è in ogni luogo e la circonferenza da nessuna parte, riceve la sua definitiva consacrazione. Testo enigmatico, che raccoglie le opinioni di ventiquattro filosofi riuniti per esprimere la propria opinione attraverso aforismi sulla natura del divino, esso appare per la prima volta in forma compiuta nel XII secolo pur rifacendosi, i suoi ignoti autori, ad ascendenze antichissime, come quelle che ne attribuiscono una parte ad Ermete Trismegisto stesso, a Platone ed ai presocratici. Caratteristica del testo è la comparsa del metodo assiomatico in teologia, una modalità di pensiero che troviamo dapprima nel commento di Gilberto Porretano al De hebdomadibus di Severino Boezio, ripreso tra il 1660 ed il 1190 proprio da quell’Alano di Lille nel suo Regulae celestis iuris già più volte citato da Borges, e nell’Ars fidei catholicae di Nicola di Amiens.

Le ventiquattro definizioni che compongono il libro vogliono dunque illustrare lo spettro possibile delle condizioni che conducono la mente umana a tradurre in concetti o in immagini l’idea noetica del divino. Ognuna è poi seguita da un commento che la illustra e la specifica. L’impostazione della nostra affermazione, la seconda, è decisamente di stampo neoplatonico, come si conviene in quegli anni ad un testo ispirato ad un neoplatonismo cristianizzato, cioè a concetti che cercano nella filosofia di Platone i presupposti della seguente rivelazione cristiana, quasi che il pensiero del filosofo greco fosse una forma di profezia secolare. Ecco dunque i riferimenti, nei commenti, a teologi e filosofi come Macrobio, Agostino, Boezio e Dionigi Aeropagita, non a caso tutti pensatori più volte citati anche da Borges nei suoi racconti.

Il centro teologico dell’affermazione in oggetto è quello che viene chiamato «emanatismo» cioè l’idea che il mondo sia una emanazione divina. Per questo l’ascendenza platonica del testo può dirsi a ben vedere racchiusa proprio nella sentenza di cui stiamo parlando. Qui, infatti, non troviamo nessuna idea strettamente religiosa, ma solo una considerazione ontologica sulla natura stessa di Dio.

A questo punto è interessante sviluppare alcuni temi inerenti al commento dell’affermazione che «Dio è una sfera in cui centro è in ogni luogo e la circonferenza in nessuno». La definizione, ci viene spiegato, rappresenta con una immagine geometrica, metaforica dunque, (per modum imaginandi) l’essenza della Prima Causa.

E dunque la Sphera è infinita: il commento ci dice che la Prima Causa è ovunque (ubique) e che essa al tempo stesso trascende ogni determinazione spaziale (supra, ubi et extra). Il centro è ovunque e il pensiero non può comprenderlo (nulla habens in anima dimensionem) perché illimitata è l’estensione della sua dimensione (sine dimensione). Qui ritornano le parole di Dante nella chiusura della Commedia, l’impossibilità logica di esprimere l’inesprimibile, di racchiudere l’infinito senza dimensione (totus sine dimensione, et etiam dimensionis infinitae).

Anche Giordano Bruno, l’eretico visionario mandato al rogo a Campo dei fiori dalla Chiesa, nel De l’infinito universo et mondi ripropose i due tipi di infinito: l’universo e Dio. Il primo sarebbe «tutto infinito» perché si compone di parti limitate, il secondo sarebbe invece «totalmente infinito» perché ogni sua parte è infinita quanto il tutto.

Come dice giustamente René Guénon nel suo Simboli della scienza sacra, bisogna dunque distinguere tra infinito, il «totalmente infinito» di Bruno, ed indefinito, il «tutto infinito»: il primo concetto nella Tradizione si applica solo ed esclusivamente alla divinità, poiché solo essa lo è, mentre quello che noi chiamiamo normalmente infinito, cioè qualcosa che possiamo concepire in qualche modo al nostro livello di esistenza, è invece semplicemente indefinito, cioè parte comunque da un punto anche se per estendersi illimitatamente.

Per questa metafora, dunque, l’essenza di Dio sta nell’infinito in atto; mentre le sue creature sono racchiuse nei confini del limitato, al massimo dell’indefinito, in Dio i confini dell’Essere si estendono all’infinito, sono essi stessi l’infinito (sua clausio infinita est).

Da qui l’idea emanatista di un Dio che è al tempo stesso generante e generato e dal cui centro tutte le cose generate prima promanano e poi inevitabilmente tornano (ab esse in unitate centri). A questo proposito, in un commento del Genesi scritto dal grande mistico Eckhart, troviamo l’affermazione che «nel settimo giorno Dio si è riposato in ognuna delle sue creature». Dio, infatti, compie ogni opera con tutto se stesso: in Eckhart, dunque, mistico a mala pena sopportato, come tutti i mistici, dall’istituzione religiosa, avvertiamo una componente Orientale del pensiero, come vedremo più avanti, e cioè che oltre l’unità e l’infinità di Dio, l’indiviso splendore della sue presenza permane in ognuna delle sue creature.

Nel commento del Libro dei ventiquattro filosofi troviamo anche una accenno al tempo della creazione, cioè al fatto che la Sfera sia eterna oltre che infinita, cioè che sia infinita anche nella sua extra temporalità (sicut creationis fuit initium). E dunque l’inesausta dimensione creatrice si attua, trova la sua conjunctio tra potenza infinita ed atto infinito, sia nello spazio che nel tempo, anticipando teologicamente l’affermazione einsteiniana della creazione simultanea del tempo e dello spazio.

Oriente ed Occidente

Interessante, infine, citare una delle concezioni cabalistiche della creazione, quella esattamente contraria all’emanatismo, cioè lo Tzim-Tzum, letteralmente nascondimento, secondo cui Dio avrebbe creato l’universo ed il suo tempo ritirandosi progressivamente all’interno di se stesso. L’universo sarebbe così ciò che resta del nascondimento di Dio dal tempo e dalla spazio, il che fa supporre che, da qualche parte, ci sia ancora tempo e spazio restante per incrementare la creazione. Ma questa è un’altra storia. Ovviamente, borghesianamente, le due visioni possono combinarsi in una sorta di solve et coagula teologico complementandosi a vicenda.

È evidente, tra l’altro, come questa metafora sia quintessenziale della visione Occidentale della relazione tra Dio e l’umanità: nel nostro emisfero culturale Dio è comunque lontano, quale che sia la modalità con cui ha creato l’universo. Egli è oramai inconcepibile, irraggiungibile, ineffabile, lo si può solo pensare per metafore o secondo una teologia negativa, cioè per ciò che egli non è. All’opposto, in Oriente, la divinità è al tempo stesso trascendente ed immanente al Mondo, è in ogni cosa, è ogni cosa. Dunque è possibile, anzi doveroso, poterla pensare nella sua essenza e questo rappresenta l’obiettivo yogico e di tutte le scuole Induiste o Buddiste.

Forse per questa lontananza spaventevole, Pascal chiosa a suo modo l’immagine di Dio come sfera infinita, definendola, in una versione manoscritta pubblicata da Tourner a Parigi nel 1941, espunta dalle edizioni a stampa, effroyable, spaventosa appunto. Si non è per l’Occidente oramai secolarizzato dalla nascita concepire l’inconcepibile.