Circondate dai seggi blu del parlamento europeo Nadia e Lamiya, avvolte negli abiti tradizionali yazidi, una lunga gonna ricamata e un velo morbido sulle spalle, sembrano ancora più piccole. Lo sguardo è quello che hanno mostrato ai giornalisti per tutta la mattina, mentre raccontavano le indicibili sofferenze a cui sono state sottoposte: uno sguardo avvizzito dal dolore e dal trauma. Ma la voce è ferma e il messaggio che mandano all’Europa anche: le loro parole sono l’opposto dell’ipocrisia occidentale, della burocrazia che avvolge i luoghi della diplomazia internazionale, quella che applaude il loro coraggio ma chiude le frontiere ai rifugiati.

«Portiamo con noi la voce di migliaia di donne yazidi, dei nostri familiari sepolti in fosse comuni, di chi è ancora schiavo dell’Isis e di chi nel mondo è vittima di schiavismo e abusi». Nadia Murad ha 23 anni, Lamiya Aji Bashar 18: ieri l’Unione Europea le ha insignite del premio Sakharov per la libertà di pensiero, riconoscimento che dal 1988 viene consegnato a chi nel proprio paese lotta contro la repressione, la violenza, l’assenza di libertà.

Entrambe sono state rapite dall’Isis il 3 agosto 2014, nel villaggio di Kocho a Sinjar in Iraq, terra della minoranza yazidi. Sono state vendute come schiave sessuali, prima di riuscire a fuggire: Lamiya lo scorso aprile, Nadia a novembre del 2014. Ma la persecuzione del loro popolo non è mai cessata, il genocidio è in atto: 3.500 tra donne e bambini sono ancora schiavi dei miliziani islamisti, sottoposti quotidianamente a abusi sessuali, torture, pestaggi. Un numero ancora indefinito di uomini è stato massacrato. Ma a mettere in pericolo la comunità yazidi non sono solo le esecuzioni, dice Nadia: «Distruggono la speranza di tornare, i luoghi di culto».

All’Europa chiedono qualcosa di molto semplice: «Vogliamo che chi ha commesso questi crimini sia trascinato di fronte alla Corte Penale – dice Lamiya – Moltissimi foreign fighters sono tornati ai loro paesi di origine, come se niente fosse accaduto. Chiediamo protezione internazionale per poter tornare a vivere nelle nostre terre, la comunità internazionale deve coordinarsi con il governo iracheno e il governo regionale del Kurdistan».

«Dopo due anni non c’è alcun sostegno. Di noi si occupano solo organizzazioni yazide, che vanno nei campi profughi per assistere i sopravvissuti». Chissà dove è finita allora la coalizione internazionale che nell’agosto 2014 intervenne militarmente in Iraq per “salvare” gli yazidi. Non c’è stata mai, il genocidio di allora serviva ad altri scopi e a liberare Sinjar alla fine sono stati peshmerga e combattenti kurdi di Pkk e Ypg.

E prima che il presidente uscente del parlamento Schulz consegni loro il premio Sakharov, mandano un ultimo appello, un’altra bomba sulla frammentaria strategia europea in Medio Oriente: «Promettete che ci ascolterete. Che farete giustizia. Promettete che non accadrà più».

Il parlamento le applaude, si alza in piedi commosso. Schulz riprende il loro appello: «Abbiamo visto villaggi e comunità cancellati dalle mappe, bambini schiavi e civili massacrati. Non abbiamo teso la mano e questo è vergognoso. Nadia e Lamiya sono qui a ricordarci i nostri obblighi». Le due ragazze vanno via, continueranno a ricordare e raccontare un dolore inaccettabile sperando che serva a salvare il loro popolo e che l’Europa non sia solo un premio e strette di mano.