Il giorno dopo la premiazione sulla Piazza Grande il megaschermo era ancora lì con l’ombra scura, quasi una cicatrice, del fuoco appiccato da un uomo pochi giorni dopo l’inizio del festival. Spariti invece subito le tende bianche, «teatro» degli incontri e delle chiacchiere, e tutto quanto ha trasformato per dieci giorni il palazzetto dello sport e la palestra della scuola nelle sale da visione per migliaia di spettatori in attesa del nuovo palazzo del cinema, di cui si vedono le impalcature, e che pare sarà pronto presto.

 

 

Ha vinto – doppio premio, Pardo d’oro e migliore attrice protagonista a Irena Ivanova – il film bulgaro Godless, «Senza dio», una dimensione questa della «religione» presente in molti film del festival. Ma se la religiosità del magnifico O Ornitologo di Joao Pedro Rodrigues (che firma la sceneggiatura insieme al compagno prezioso nell’avventura dei suoi film, Joao Rui Guerra da Mata), premiato per la migliore regia, sposta la dimensione del sacro nell’immaginario ripercorrendo icone, mitologie, memorie di una rappresentazione con rispettosa irriverenza, sensualità e profondo amore per i personaggi, un film come Godless ammicca furbescamente ai luoghi comuni degli integralismi contemporanei. Non a caso i titoli di coda ci dicono che è frutto di molti fondi europei, pitching e altro, quella ricetta che sta omologando il cinema «indipendente» nel mondo e che offre, come in questo caso,i mezzi efficaci per il film d’effetto.

 

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Al centro c’è Gana (Ivanova) operatrice sociale di un welfare instabile che assiste persone anziane. La giovane donna fa parte di una rete criminale che utilizza i documenti dei pazienti per coprire società fantasma di riciclaggio del denaro sporco.
Insieme al fidanzato, che ha il compito di spaventarli quando osano ribellarsi, Gana li tiene in ostaggio. Nessuno controlla, sono vecchi, poveri, fantasmi anche loro nei blocchi di cemento eredità dell’urbanistica sovietica. E soprattutto i vertici della rete criminale sono il capo della polizia aiutato dal giudice compiacente strozzato dai debiti e, lo immaginiamo, protetto da qualche politico. Tra gli anziani però uno attrae la ragazza, dirige un coro in chiesa e lei è stupefatta dal canto. Sarà lui a scuotere la sua «coscienza» ma la redenzione non è possibile in un mondo senza dio.

 

 

 

 

 

Bene e Male, i collassi della Storia, comunismo e post-comunismo nella filigrana della società bulgara dominata dal capitalismo più spietato che ha cancellato ideali e compassione. Dio, fede, colpa, redenzione: Ralitza Petrova, la regista, dispiega l’intero catalogo dei Grandi Temi di una riflessione sul mondo contemporaneo che esclude le contraddizione, le pieghe e i paradossi guidando le coscienze degli spettatori in una compiaciuta «direzione unica» che ne carezza le certezze.

 

 

 

 

Interno e esterno si sovrappongono, le immagini assecondano l’assunto della narrazione: un paesaggio grigio, uniforme, putrefatto come quelle anime i cui corpi sono fagotti senza forma, pezzi di carne e il sesso stupro, orge, pompini per soldi, prostituzione. I personaggi di questo film sono tutti sporchi, brutti, con la pelle rovinata e i capelli unti – tranne il magistrato disonesto ma upper class – figure di un proletariato svuotato di ogni identità sociale.
La «zingara» – come la chiamano nel palazzo – lo fa davanti agli occhi della figlietta coi camionisti che ansimano. La ragazza la porta via.

 

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«Puttana sembri un maschio» grida a Gana una delle sue vecchie prima di essere strangolata. Lei spalanca gli occhi liquidi, informe nei vestiti lerci. Da piccola il padre l’ha venduta ai militari sulla frontiera dell’ex-Jugoslavia per niente. Al vecchio confida che sogna ancora di ammazzarlo. Anche l’uomo, che da giovane era stato rinchiuso a spaccare pietre dal regime comunista voleva uccidere i suoi persecutori. «La nuova classe dirigente sono i figli di quelli che ci hanno già massacrati una volta» dice prima di morire vessato da vecchi e nuovi regimi. Nella giustizia negata rimane solo l’aspirazione a dio – origine di vecchi e nuovi integralismi – confusa alla vendetta. Un dio biblico di morti parallele e di metafore furbe che questo film, pur essendo un’opera prima, dimostra di manovrare con maestria insopportabile.

 

 

 

 

 

Chissà cosa è piaciuto al regista messciano Arturo Ripstein, presidente della giuria locarnese in un film (ma perché metterlo in gara?)che è l’opposto del cattolicesimo barocco e fiammeggiante con cui tinteggia le sue immagini. Ma forse è proprio questo sfoggiare il contenuto del presente che lo ha imposto in una competizione di film dalle linee narrative molto minimal.

 

 

Lo stesso vale per Inimi cicatraze (Cuori feriti) di Radu Jude che però è un bel film, e stacca dagli altri della gara locarnese per sicurezza e invenzioni formali. L’ispirazione del bravo regista rumeno di Aferim! è l’autbiografia di Max Blencher, scrittore rumeno, ebreo, morto nel 1939 a ventinove anni di una tubercolosi ossea che lo ha rinchiuso quasi tutta la vita nei sanatori. Ed è qui che si ambientano le sue memorie, un diario delle cure – siamo sul Mar Nero – che somigliano a torture: costretti a letto, chiusi nei busti, le ossa rattrappite stese a forza, le parole di una medicina impotente – l’antibiotico non esiste ancora. E di una vita che vi si oppone sfacciata, un gioco irriverente con la morte che annulla il dolore, la lacrima, le cure in notti selvagge. Quei corpi feriti si ribellano, fremono, vibrano, fanno l’amore e contro le corazze che li bloccano e il male che li imprigiona inventano nuove traiettorie, scoprono altri punti per carezzarsi e godere, sfidano la loro condanna col piacere, liberano una vitalità che irrompe anche dove appare negata.

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Il personaggio di Emanuel, io narrante e alter ego dello scrittore riempie quei giorni di umorismo e tenerezza verso sé stesso e verso i suoi compagni, le amanti, gli amici, e ci conduce in quell’altrove al mondo «reale» che Jude mette in scena cercando di resistuirne nella forma delle sue immagini l’essenza, lo scompiglio, la sorpresa: stanze che si aprono e che si chiudono, i ferri e le danze sui letti con le ruote, il silenzio di fronte al mare perché il sole fa bene alle ossa, i gesti ordinari che per i malati sono quasi impossibili. E che rendono però nel loro desiderio del mondo gli aspetti più surreali e terribili della loro condizione quasi una forma di resistenza al mondo fuori, La Storia dell’Europa nel 1937 affiora nelle loro discussioni, nell’arte e nei poeti, Cioran che lo scrittore detesta, il nazismo che si impone, la caccia agli ebrei e il nazionalismo fascista rumeno trionfante mentre lui, lucidamente caustico, muore. E la sua malattia quasi diviene metafora di una malattia più ampia, che scuote l’esterno oltre quelle mura, la cui cura è in quel momento ugualmente impossibile.

 

 

Jude utilizza un formato 4:3, la macchina da presa è quasi fissa e non si avvicina mai troppo ai volti dei personaggi cercando di restituirne la condizione di immobilità mentre il racconto della Storia scivola nella dimensione intima e la immagina come una forma di ostinata resistenza. Lì dentro ancora tutto appare ancora in movimento, nonostante i ferri. Fuori il mondo si è già sbriciolato senza scampo.