Shinta è orgogliosa di essere musulmana e donna, e vuole pregare da donna qual è. Sembrerebbe semplice se non fosse che è una waria, neologismo frutto della contrazione di wanita e pria che in indonesiano significano rispettivamente donna e uomo. Sì, perché Shinta Ratri è nata uomo, ma fin da piccola si è sentita donna e a sedici anni ha fatto coming out in famiglia. È transessuale, classe 1960, attivista LGBT, e nel 2008 ha deciso di aprire nella casa della nonna una scuola coranica per transgender a Yogyakarta, l’antica capitale culturale indonesiana, nell’isola di Java. Forse l’unico esempio al mondo, sicuramente un punto di riferimento e in qualche modo una sfida per Shinta e le sue compagne.
L’Indonesia è il più grande paese musulmano, l’omosessualità è tollerata, ma su alcune isole dell’arcipelago vige la sharia. La legge islamica non è tenera nei confronti di gay e lesbiche, puniti con frustate, torture e carcere. Considerare l’esperienza di Yogyakarta un’isola felice sarebbe troppo, il travestitismo rimane per l’Islam una pratica non ammessa e Shinta e le sue amiche sono viste così, come uomini travestiti da donne, non avendo portato a termine il percorso di transizione con l’intervento chirurgico. Certo è che in quegli spazi ci si riunisce per pregare e recitare il Corano senza doversi nascondere.

Il martedì e il giovedì la presenza di un imam gay, amico di Shinta, rende le preghiere ufficiali. Il centro è anche un convitto oltre che luogo di riunioni e confronto per la comunità waria. Si stima che a Yogyakarta ne vivano circa trecento. Intorno alla scuola gravitano un centinaio di donne, una decina abita lì. Durante il mese del Ramadan dalle isole vicine arrivano giovani che non possono vivere apertamente la loro condizione. Molti waria subiscono discriminazioni, altri una volta rientrati a casa si svestono degli abiti femminili e tornano a recitare un ruolo maschile per essere accettati. Shinta è ritratta insieme alle altre mentre indossa la mukena bianca, l’abito tradizionale femminile per raccogliersi in preghiera, con il Corano alla mano in ginocchio sul suo tappeto, ma anche in pose molto intime, da cui trasuda tutta la sua femminilità.

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La sua immagine è riflessa nello specchio mentre si trucca, si mostra con e senza velo, sdraiata sul letto in un atteggiamento molto sensuale. La storia di questa piccola enclave indonesiana è balzata all’attenzione internazionale dopo che il fotografo bolognese Fulvio Bugani l’ha raccontata per immagini nei suo scatti nel progetto Waria: being a different muslim. Uno di questi si è aggiudicato il terzo premio nella sezione Contemporary Issues del prestigiosissimo World Press Photo, destinato ai migliori lavori di fotogiornalismo al mondo.

L’immagine vincitrice è corale, rappresenta un momento d’incontro fra i waria e la comunità locale. Il tema della foto si coglie, ma non fino in fondo. Solo ad uno sguardo attento si capisce che si tratta di un paese musulmano e che le donne hanno seni prosperosi e al tempo stesso muscoli evidenti e qualche tratto mascolino. La comprensione del contesto in cui è stata scattata non è immediata, come nemmeno il racconto. «È vero, come foto singola è molto forte, ma è estrapolata dal contesto. Dovrebbe essere accompagnata da una didascalia», commenta lo stesso Bugani, classe 1974, freelance da più di vent’anni, reporter da circa sette. La curiosità e l’interesse che lo hanno portato a cercare questa particolare storia è iniziato nel 2010 quando ha realizzato un reportage in Senegal, seguito nel 2013 da uno nell’isola di Lamu. Mentre era in quei paesi Bugani ha cominciato a chiedersi e chiedere alla gente perché non si vedessero omosessuali e transessuali. Nel maggio 2014 le sue ricerche si sono concentrate sulla scuola coranica di Yogyakarta per capire il punto di vista dell’Islam su questo tema delicato.

Quando Bugani è entrato in contatto con Shinta Ratri, direttrice della scuola, ha subito colto quali e quante difficoltà fosse costretta a vivere ed affrontare ogni giorno sul lavoro e nelle sue tante attività. Quando Shinta ha confessato alla famiglia di sentirsi una donna ha dovuto lasciare la casa. Il padre non ha condannato la sua condizione, ma di fatto le ha chiuso la porta in faccia. Ancora oggi a distanza di anni dalla sua morte ogni volta che Shinta va in visita alla madre non varca la soglia per rispettare quella regola.

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La donna ha due matrimoni alle spalle, il primo, durato dodici anni, con un giovane gay che l’ha lasciata per sposare un’altra da cui avere dei bambini. Alla morte della seconda moglie le è stata data in adozione la figlia che ora vive con lei. Con il secondo marito è andata più o meno allo stesso modo. Aprire la scuola coranica è stato necessario per avere uno spazio in cui insegnare alle giovani il Corano e creare una comunità. La visibilità che il premio fotografico ha dato a questa esperienza le ha indirettamente attribuito anche una sorta di protezione. Ora, forse, sarebbe più difficile attaccare una realtà così speciale e conosciuta.

La scuola è tollerata dalla gente, ma tuttavia la società la giudica e la guarda come se fosse un soggetto stravagante. Quando alcuni di loro vanno per strada travestiti per chiedere l’elemosina, vengono considerati ridicoli, suscitano ilarità e compassione. Il quartiere dove sorge la scuola è isolato e questa rappresenta in un certo senso un piccolo ghetto. Da questo racconto Bugani ha tratto ispirazione per i prossimi lavori, volendo approfondire e allargare il progetto sul rapporto fra sessualità e religioni. Il fotografo lavora sempre in digitale e usa solo un obiettivo di 28 millimetri fisso che gli permette di fare inquadrature larghe per avere un’immagine più complessa. Il bianco e nero in questo caso è stato necessario, «il colore» spiega, «avrebbe indebolito la storia spostando l’attenzione».

Il suo maestro è l’americano Alex Webb, dell’agenzia Magnum. Di lui ama la composizione difficile, quasi caotica, piena, che nella confusione rende un’idea di perfezione seppur nella complessità. Per vincere il World Press Photo ci sono requisiti molti precisi da rispettare, la commissione stila una sorta di decalogo di operazioni da non fare, pena la squalifica, soprattutto in fase di postproduzione. Fra gli elementi più significativi l’uso del fattore di crop, la funzione di taglio dell’immagine per eliminare alcune parti, di cui in troppi abusano. Bugani ha ottenuto l’immagine che poi ha vinto il concorso dopo alcuni scatti fatti in sequenza in cui pian piano si è andato delineando il quadro finale. Il Time, lo scorso aprile, ha dedicato un ampio servizio ai waria, pubblicando una galleria di quindici scatti. Da anni Fulvio Bugani è specializzato in reportage con un’attenzione particolare al sud del mondo, le piccole comunità, i diritti umani. Per il National Geographic ha realizzato un servizio sui pescatori di Lamalera, nell’isola indonesiana di Lembata, che per sopravvivere pescano squali e delfini con l’uso di lance rudimentali, spesso a mani nude, rischiando ogni giorno la vita.

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Ha documentato il campo profughi di Bubukwanga, fra il Congo e l’Uganda, e i lavoratori di mattoni in Kenya, fra i quali molto comune lo sfruttamento minorile. Un paio di anni fa ha raccontato la Transnistria, una sottile striscia di terra che divide l’Ucraina dalla Moldova, oggi delicato tassello nel conflitto russo-ucraino, stato indipendente de facto, non riconosciuto dai paesi membri dell’ONU, considerata l’ultimo avamposto sovietico in Europa.
Bugani collabora con diverse riviste, associazioni e organizzazioni non governative. Il progetto Waria ha ottenuto il patrocinio di Amnesty International. È docente di fotografia e nel ’99 ha fondato a Bologna lo studio fotografico IMAGE dove organizza corsi e laboratori.