«Sarà un ottimo presidente. Un giurista. Non è uno che fa passare qualsiasi cosa. Certe sciocchezze istituzionali non le farà passare». «Sciocchezze istituzionali». Pier Luigi Bersani dice proprio così, in una conversazione raccolta ieri da Aldo Cazzullo sul Corriere della sera. Aveva in mente, si può presumere, l’Italicum, di cui in qualche riga oltre compone una descrizione eloquente: «Io non faccio il giudice della Consulta. Non entro nel merito della costituzionalità. Ma questa legge elettorale non ci sta bene. Chiediamo di essere ascoltati. Chiediamo di cambiare, ora che tornano alla camera, le norme sui capilista bloccati. Altro che riconoscibilità dei candidati, qui avremo collegi enormi: ad esempio Piacenza e Parma, 600 mila elettori; solo la lista che prende il premio di maggioranza eleggerà parlamentari con le preferenze. Gli altri sono tutti nominati». Bersani, in altre parole, invoca la diga del Colle sulle riforme renziane giudicate dalla minoranza Pd, per alcuni aspetti, troppo disinvolte. E non è un mistero che Sergio Mattarella, pure storicamente contrario alle preferenze, sia stato uno dei giudici della Consulta più determinati contro il Porcellum, in parte poi giudicato incostituzionale dalla Corte. L’Italicum è un erede dei difetti di quella legge. E se quello di Bersani non è un appello al presidente ancora neanche insediato, poco ci manca. Dello stesso tenore ieri le affermazioni di Rosy Bindi. «Mattarella non è uno che enfatizza il conflitto istituzionale, ma non è neanche uno che firma tutto senza studiare con attenzione gli atti». Altri, chiedendo l’anonimato, aggiungono in ordine sparso: «Renzi non sa chi si è messo in casa», «Altro che uomo grigio e in grisaglia, si accorgerà presto di chi è».

Vedremo presto se queste aspettative andranno deluse o no. Ma intanto queste sono frasi che svelano, non volendolo fare, un pezzo della vita ’di dentro’ del Pd. C’era, fin qui, un codice di comportamento, un patto non scritto ma inviolabile: anche nella più fitta sassaiola sulle riforme istituzionali nessuno osava appellarsi al Colle, arbitro sì, ma innominabile, del primo vaglio di costituzionalità delle leggi. Non l’ha fatto nessuno dei tanti emendatori dem, si è ben guardato dal farlo il senatore Miguel Gotor, protagonista dell’ultima battaglia contro l’Italicum. Non è un caso che invece i renziani più accorti, come Giorgio Tonini, nel fare gli auguri di buon lavoro al nuovo arbitro e garante della Carta, aggiungono la clausola «sulla scia di Napolitano».

Nessuno lo dice apertamente (solo Corradino Mineo definisce Napolitano «uno stalinista senza lotta di classe, ovvero uno statalista») ma con l’elezione di Mattarella si slatentizza un pensiero inconfessabile nella minoranza Pd: che Mattarella sarà un alleato per dissuadere Renzi non dal completare il processo delle riforme, ovviamente, ma dalle «sciocchezze istituzionali» che contengono. L’alleato che Napolitano, con le sue ripetute esternazioni contro i dissensi derubricati al rango di «atteggiamenti frenanti», non è stato. Ma questo fin qui non si poteva dire: nel novennato scorso – dai tempi in cui Napolitano era una ancora di salvezza contro le peripezie legislative del governo Berlusconi, a quelli in cui il Colle ha indicato la strada delle larghe intese con Monti anziché quella del voto, al «mandato congelato» di Pierluigi Bersani fino ai nostri giorni – Napolitano era per il Pd un papa infallibile e insindacabile, del quale «nihil nisi bonum».