Assistiamo oggi a un paradosso: più il mondo diventa complesso e quindi difficile da spiegare, più la comunicazione deve essere semplice, elementare, per ottenere risultato.
La teoria della complessità rappresenta una frattura epistemologica rispetto al precedente modo di pensare che secondo l’utopia illuminista prometteva a tutti, se dotati di rigore e di volontà, di capire il mondo in cui vivevano e di maturare la marxiana coscienza di classe. Sapere aude, Abbi il coraggio di sapere, è il motto dell’illuminismo. Nella società postmoderna ci troviamo ad affrontare un mondo complesso, armato solo di un pensiero che si riconosce debole. Non vale neppure la spesa di tentare.

Cos’è che contraddistingue un pensiero complesso, da un pensiero solo difficile o complicato?

Non sono un epistemologo e quindi, per semplificare, mi affido alla definizione di Wikipedia: «Complesso scende dal verbo latino complector, che vuol dire cingere, tenere avvinto strettamente e, in senso metaforico abbracciare, comprendere, unire tutto in sé, riunire in un solo pensiero e una sola denominazione (…) Dal XVII secolo in poi, una situazione, un problema, un sistema è complesso se consta di molte parti interrelate, che influiscono una sull’altra. Un problema complicato (da complico, piegare, arrotolare, avvolgere), invece, è uno che si fatica a risolvere perché contiene un gran numero di parti nascoste che vanno scoperte ad una ad una». L’esempio più semplice è l’origami, che ci appare tridimensionale e dotato di innumerevoli pieghe, ma che può essere ridotto al semplice foglio di carta iniziale. Questo processo di semplificazione non è attuabile invece nel caso della complessità. La complessità non è riducibile alla linearità. Un problema è lineare se lo si può scomporre in una somma di sotto-problemi indipendenti tra loro. Quando, invece, i vari componenti e/o aspetti di un problema interagiscono gli uni con gli altri così da rendere impossibile la loro separazione per risolvere il problema passo passo e a blocchi, allora si parla di non linearità.

L’operaio perduto

La complessità si presta allo studio degli organismi viventi. Ma è ormai evidente che riguarda anche gli aspetti della vita associativa come la politica e l’economia. Ed allora diventa sempre più difficile elaborare teorie convincenti, decodificare processi in corso, assumere un ruolo attivo o semplicemente recuperare quella coscienza che agli albori del socialismo, sembrava a portata di mano. Con l’avvento del capitalismo la sinistra si è assunta il ruolo di spacchettare i problemi complicati, di rendere lineare il rapporto di produzione e quindi di sfruttamento. Lo scenario era semplice: c’era il capitalista che deteneva i mezzi di produzione e il proletario che forniva il suo lavoro. Ma dato che il valore che andava ad arricchire il capitale era un prodotto del valore dell’operaio, era evidente sia lo sfruttamento del lavoratore che il suo indiscutibile valore.

Come la pietra filosofale creava oro, il lavoro creava ricchezza. Oggi il lavoro è morto. La fine del lavoro è stata decretata già molti anni fa da libri come La fine del lavoro di Jeremy Rifkin o L’orrore economico di Viviane Forrester.

Oggi il lavoro è diventato un diritto, qualcosa che si è perso e che si vorrebbe recuperare e non può quindi più rappresentare la nostra identità.

Il lavoratore ottocentesco ha subito nello scorso secolo mutazioni essenziali. Prima è diventato consumatore. Questa metamorfosi è avvenuta precocemente negli Usa con il fordismo. In Italia si afferma con il boom consumistico degli anni Ottanta. Per reggere la produzione è necessaria una domanda. Il lavoratore diventa consumatore dei suoi stessi prodotti. Più o meno nello stesso periodo le aziende produttrici smettono di finanziarsi con prestiti bancari per quotarsi in borsa. Le azioni frantumano la proprietà, il capitale in un pulviscolo di microproprietà.

Il lavoratore diventa azionista e quindi proprietario, magari attraverso il suo fondo pensione, di quella stessa fabbrica che dovrebbe sfruttarlo. Infine la «walmartizzazione» del lavoro e dei mercati. La globalizzazione scatena la competizione mondiale dei produttori che, per ottenere profitti più alti, devono pagare salari più bassi. I salari si riducono insieme alla capacità di acquisto. Per permettere ai lavoratori di continuare ad acquistare bisogna contenere i prezzi delle merci, ma questa diventa una spirale al ribasso che non fa che renderci sempre più poveri.

Ritorniamo alla figura del lavoratore prima delle sue successive evoluzioni: il suo interesse era evidente, si trattava solo di prenderne coscienza. E favorire maieuticamente l’emergere di questa coscienza era il ruolo della sinistra.

Oggi siamo lavoratori ma anche consumatori, ma anche proprietari/azionisti di quelle stesse aziende che ci sfruttano come lavoratori e ci forniscono come consumatori, consumo a basso prezzo. Quale parte di noi dovrebbe prevalere? E come potremo semplificare il nostro ruolo spacchettando una ad una le identità che ci compongono?

È un tipico caso di complessità. Come gestirla a livello politico? Fino ad ora la sinistra non ha ancora trovato una soluzione. Non a caso, in tutto il mondo e salvo poche zone progressiste, la destra continua a prevalere nelle sue due forme di partito conservatore/democratico.
Un problema complesso non è riducibile in modo lineare ad una serie di situazioni semplici, ma, almeno a livello di propaganda, la destra lo fa. Fa appello al nostro io consumatore e proprietario per bastonare il nostro io lavoratore ed affossare il concetto di diritti umani.

Frammenti identitari

Veniamo continuamente istigati all’odio contro una molteplicità di nemici che non sono altro che frammenti della nostra identità. Il consumatore vuol consumare a basso prezzo e se la prende con i sindacati e il costo del lavoro. Il lavoratore che vuole lavorare se la prende con i privilegiati che il lavoro ce l’hanno e costituiscono una casta. Ogni diritto si tramuta in casta e ogni rivendicazione in un ribasso delle condizioni di vita. Quando poi il cittadino prende coscienza della complessità del suo ruolo o dei suoi molteplici ruoli, allora diventa intollerante nei confronti di chi è escluso, il rom, l’extracomunitario, il parassita.

Il messaggio della destra xenofoba è semplice perché tende sempre a costruire un nemico fittizio su cui scaricare la rabbia e la frustrazione di non capire le ragioni del proprio malessere. Vince, comunque e sempre, il messaggio più semplice, più spacchettato. Possiamo definire di destra il messaggio che incita all’odio e cerca un capro espiatorio, progressista il messaggio ottimista alla Renzi, attualmente vincente perché inclusivo ed ottimista, ma egualmente piegato al pensiero unico.

Oggi Renzi fa il pieno di audience più o meno a tutti i programmi a cui si presenta, a testimonianza del fatto che i cittadini tendono a delegare in toto al governo ogni decisione, rifiutandosi di avere un ruolo attivo. E dal mio osservatorio di curioso della comunicazione, a questa stessa passività è imputabile il declino del talk show. Solo poche stagioni fa Santoro raccolse tramite una pubblica sottoscrizione i soldi necessari a tenere in vita il suo Servizio Pubblico. Il talk show è figlio di una epoca, il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica a cui tutti i cittadini sentivano di potere e dovere partecipare. Si parlò allora di spazio pubblico, di agorà virtuale che permetteva a tutti di dibattere ed interagire con la cosa pubblica. I talk si riproducevano e nascevano a ritmo accelerato. Oggi affondano nell’indifferenza di audiences ad un’unica cifra rivelando la disaffezione, l’inerzia, di quello che era stato un pubblico forte ed attivo ed una opinione pubblica informata.

Ricostruire una comunicazione di sinistra è sempre più difficile. Ormai tutta la comunicazione è diretta sull’individuo e i suoi bisogni. Fa appello a ciascuno di noi e ci chiama per nome come fa Renzi guardandoci negli occhi: «tu Marco, tu Martina, tu Vincenzo…». Si tratta di immaginare discorsi di portata generale, di rivalutare quei diritti dell’uomo che vengono percepiti oggi come privilegi. Oggi la sinistra appare sempre più incapace di discorsi complessi proprio perché il mondo è troppo complesso per essere ridotto a discorso.