Nel 1989 David Freedberg, già direttore dell’Italian Academy di New York e da pochissimo del Warburg Institute a Londra, scrisse un libro poderoso intitolato The Power of Images (tradotto nel 1993 e poi ristampato nel 2009 da Einaudi). In quelle pagine studiava i caratteri delle nostre risposte emotive, e dunque insieme psicologiche e fisiologiche, a un certo tipo di immagini: l’idea di fondo (che ha trovato poi significativi sviluppi nell’ambito della cosiddetta neuroestetica) è che le reazioni degli spettatori non siano solo il frutto di fattori contestuali alla luce dei quali si riescono a cogliere i significati che le rappresentazioni incarnano, ma siano sempre anche relative a una sorta di grammatica tipologica universale, per cui certe immagini producono quasi spontaneamente determinate reazioni, certe specifiche emozioni, nello spettatore che le osserva.
L’intento di Freedberg era, insomma, quello di mostrare che il potere delle immagini implica un riconoscimento dell’esistenza di forme di base della risposta umana, forme che hanno a che fare innanzitutto con l’architettura del cervello e con la specificità biologica. Questo non esclude affatto che il potere delle immagini sia andato formandosi secondo una dinamica storica di costruzione dei significati; ma i significati possono venire costruiti, secondo Freedberg, solo a partire da uno sfondo di risposte reattive che non sono a loro volta costruite.

Sono considerazioni, quelle di Freedberg, che vengono in mente leggendo i cinque notevolissimi saggi che compongono l’ultimo libro di Carlo Ginzburg, Paura reverenza, terrore, (pp. 311, euro 40,00) con il quale Adelphi inaugura una collana intitolata, significativamente, Imago. Il libro si presenta come composto da una serie di percorsi che sono insieme filosofici, estetici e soprattutto storico-politici (il sottotitolo è infatti Cinque saggi di iconografia politica): ogni saggio ruota intorno a un’immagine che mira a far emergere quelle che Warburg chiamava le formule di pathos, ovvero le raffigurazioni nell’arte di determinati gesti citabili appunto come formule e che veicolano determinate emozioni e determinate gerarchie.

Secondo Warburg il Rinascimento, e dunque l’alba della modernità, è caratterizzato dal recupero di alcuni gesti di emozione dal vocabolario iconografico antico cui viene non di rado attribuito un significato rovesciato, per cui, ad esempio, la frenesia estatica delle baccanti viene utilizzata per esprimere la frenesia intrinseca al dolore di Maria Maddalena. Ciò che soprattutto interessa Ginzburg – e per questo viene in mente di associargli il lavoro di Freedberg, al quale si avvicina nella ricerca delle costanti iconografiche in grado di produrre emozione, ma dal quale anche radicalmente si allontana mostrando come queste costanti possano assumere a seconda delle epoche e delle circostanze significati non solo diversi, ma talvolta anche opposti – è essenzialmente l’intreccio fra queste formule di pathos, fra questo vocabolario in grado di attraversare contesti diversi e visioni del mondo apparentemente incommensurabili, e le contingenze storiche imprescidibili a che questa sintassi assuma quei determinati significati.

Il primo saggio è dedicato a una coppa d’argento dorato prodotta ad Anversa intorno al 1530, nelle cui decorazioni, che riprendono raffigurazioni classiche dell’età dell’oro, Ginzburg legge l’ambiguità con cui si guardava all’inizio del ‘500 a quella che può essere considerata come una delle cesure più sconvolgenti con cui si apre l’età moderna, ovvero la scoperta del Mondo Nuovo.

Il secondo saggio è dedicato alla famosa immagine, e alle modificazioni che le sono state apportate, che si trova sul frontespizio del Leviatano di Thomas Hobbes. La rappresentazione del Leviatano e del peculiare rapporto di sottomissione dei sudditi diventa l’occasione per Ginzburg di insinuarsi, soprattutto attraverso l’analisi dei precedenti classici, e in primo luogo attraverso l’analisi della traduzione da parte di Hobbes della Guerra del Peloponneso di Tucidide, dentro le peculiarità di un termine chiave della concettualizzazione hobbesiana e conseguentemente di tutta la filosofia politica moderna, e cioè la parola inglese awe, in cui confluiscono, ancora una volta ambiguamente e in modo trasfigurato rispetto alla classicità greca e romana, tanto la reverenza quanto il terrore.

Il terzo saggio (quello forse più straordinario per ampiezza e profondità di analisi) è dedicato al celebre Marat di Jeacques-Louis David. Qui Ginzburg mostra come questo quadro – uno dei primi o forse addirittura il primo a essere datato in base a un calendario privo di connotazioni classiche o cristiane (anno due dell’era repubblicana) e che non a caso secondo molti interpreti inaugura il modernismo in pittura – costituisca una sapiente rielaborazione di rappresentazioni gestuali e caratteri iconografici sia classici che cristiani. Il Marat di David non è dunque, secondo Ginzburg, semplicemente un quadro politico, bensì un atto politico, ovvero la costruzione sapiente di una legittimazione del potere repubblicano attraverso la posizione dell’eroe rivoluzionario nel luogo dell’eroe classico e del santo cristiano.

L’indagine di Ginzburg, tuttavia, non si rivolge solo a oggetti artistici dei quali è lecito pensare che siano in se stessi un luogo di confronto con la tradizione da cui provengono: lo dimostra il quarto saggio, che è infatti dedicato alla famosa immagine propagandistica del dito puntato con il quale la patria chiede l’arruolamento ai propri cittadini: una iconografia usata per la prima volta da Lord Kitchener in nome del Regno Britannico nella Prima Guerra Mondiale e poi ripresa tanto nel famoso I Want You dello Zio Sam americano, quanto da tutte le propagande dei regimi totalitari nella prima metà del Novecento. Anche qui ciò che viene messo in evidenza, soprattutto a partire dallo sguardo di colui che chiama e che si rivolge all’osservatore da qualunque parte lo si guardi, è il carattere insieme classico e religioso alle spalle dell’icona, che dunque si appropria più o meno consapevolmente, di un vocabolario misticheggiante e apparentemente estraneo alla tipologia della comunicazione in gioco: ma proprio questo, sebbene in modo subliminale e non esplicito, la rende efficace.

A chiudere il volume sta un testo denso e articolato su quella che è forse l’icona più famosa dell’arte novecentesca, Guernica di Picasso. Anche in questo caso Ginzburg si ferma sugli elementi di classicità che innervano la tormentata elaborazione del dipinto: elementi classici che gettano luce sulla straordinaria ambiguità del quadro. Guernica è infatti l’icona dell’antifascismo, il quadro antifascista per antonomasia in cui, tuttavia, il fascismo è assente, perché non vi trova rappresentazione.
Dunque, le cinque immagini analizzate da Ginzburg sono tutte illustrative di quel processo storico non interamente chiarito che va perlopiù sotto il nome di modernità. E in qualche modo ciò che questi percorsi tendono a problematizzare è proprio questa nozione di modernità, ovvero la cesura che essa pretende rispetto all’orizzonte classico e all’orizzonte cristiano.
Particolarmente interessanti sono i passi in cui Ginzburg mette in luce l’ambiguità del concetto di secolarizzazione: le società secolarizzate, sembra dire l’autore, più di quanto non siano segnate dal disincanto e dalla dissoluzione della religione, sono comunità che si fondano e si costituiscono occupando la sfera del sacro, invadendone lo spazio: appropriandosi dell’aura della religione, piuttosto che annientandola. Le società secolarizzate non si contrappongono in senso proprio alla religione, ma si sostituiscono ad essa su quello stesso terreno. Proprio da queste analisi puntuali, che guardano lontano nel tempo, ci riesce meglio capire qualcosa di più anche del mondo post 11 settembre: meglio di quanto non avvenga grazie a molte discussioni politologiche prigioniere di un presente che, se lasciato a se stesso, si rivela muto.