«Il suo periodo è una linea curva che serpeggia e guizza ne’ più libidinosi avvolgimenti, con rientrature e spezzamenti e spostamenti e riempiture, e sono vezzi e grazie, o civetterie di stile, che ti pongono innanzi non pur lo spettacolo nella sua gaiezza prosaica, ma il suo motivo sentimentale e musicale.» Francesco De Sanctis descrive i periodi di Boccaccio, che sono lunghi, sinuosi e vivi, e lo fa con una frase a più strati, piena e ricca, a sua volta affollata di cose e di movimento. La sintassi italiana è stata spesso, nei secoli, un tessuto raffinatissimo: i grandi prosatori, a partire da Boccaccio e includendo De Sanctis, hanno tornito frasi capaci di contenere, entro lo spazio limitato dal punto fermo, distinzioni e ramificazioni, digressioni e avanzamenti. I periodi lunghi, ha scritto Philip Roth, sono come una corsa in metropolitana: sali a una fermata, scendi a un’altra. Cose succedono, idee si sviluppano. Ma non solo. Concatenare insieme mille pensieri è un’arte seducente perché permette allo scrittore di modellare una prospettiva. Zone d’ombra e messe a fuoco sono distribuite dalla sintassi.

Che stabilisce rapporti; raggruppa le circostanze attorno a un centro; coordina o subordina; regola le relazioni di tempo, di causa, di fine, esprimendole in forme nette, non equivocabili. Grazie alla sintassi, lo scrittore domina il disordine della realtà; e attira il lettore in un percorso recintato, che non consente alternative. Perché qui sta la questione: la sintassi è un esercizio di potere. Anche De Sanctis, con la sua bella prosa, riordinava la storia letteraria entro le singole frasi come faceva entro i secoli: con primi piani, sfondi, chiari giudizi. Una sequenza di periodi brevi e giustapposti, poveri di elementi connettivi, lascia che sia il lettore a stabilire, tra gli uni e gli altri, rapporti e gerarchie; mentre gli strati, i chiaroscuri, i tentacoli di una macchina sintattica complessa accompagnano e guidano. Ti abbandoni, e la lingua ti prende per mano. Autorevole.

O autoritaria. Assieme al chiaro di luna i futuristi, si sa, volevano uccidere la sintassi: vestigio, scrive Marinetti, di una «intelligenza tracotante e miope che si sforzava di domare la vita multiforme della materia». L’opposto di quell’accostare parole e frasi senza legarle che pare, a qualcuno, libertà. Invece, scegliere forme spezzate o aggregate è, come sempre, un modo di registrare il mondo, e di proporlo a chi legge: assoggettato al buon governo della lingua; o franto, scheggiato, aperto a ricomposizioni molteplici.