A luglio si ricorderanno gli ottant’anni dallo scoppio della Guerra civile spagnola (17-18 luglio 1936). Nonostante sia uno degli eventi più indagati dalla storiografia contemporanea, anche italiana, rimangono insoluti alcuni nodi politici che dal quel conflitto generarono per il nostro paese. La mancata resa dei conti con quell’evento, che vide gli italiani due volte protagonisti, fa parte del nostro rimosso storico. Parafrasando Elio Apih, la Spagna fa parte del nostro passato che non passa, sineddoche della mancata costruzione di una coscienza nazionale sui nostri crimini di guerra. Incagliati nel mito dell’italiano costruttore di ospedali e dispensatore di pace, fatichiamo a percepirci come protagonisti di una storia fatta di crimini quantomeno speculari a quelli delle altre potenze coloniali. Manca, in Italia, un’elaborazione del proprio ruolo storico coloniale che altrove si è invece prodotta o quantomeno tentata. Le valide ricerche storiografiche non riescono a rompere il muro della divulgazione, raggiungendo il grande pubblico e sedimentando una coscienza critica collettiva. Questo importante anniversario potrebbe essere l’occasione per tentare nuovamente un’opera di divulgazione sulle politiche imperialiste italiane nel corso del Novecento. Partendo, ad esempio in questi giorni, dal riconoscimento pubblico dei crimini di guerra perpetrati dal nostro paese nel bombardamento della città di Barcellona tra il 16 e il 18 marzo 1938. Due volte protagonisti, dicevamo. Da un lato gli italiani, attraverso i canali più o meno formali della militanza politica, furono interpreti privilegiati della difesa della Repubblica. Nelle ore immediatamente successive al golpe, le milizie del Partito comunista diedero vita al famoso V Reggimento, diretto da Vittorio Vidali – in Spagna conosciuto col nome di Carlos Contreras – vero e proprio embrione del futuro esercito popolare ricostituito della Repubblica. Gli italiani furono tra i maggiori componenti stranieri delle Brigate internazionali, cioè le unità militari costituite (in maggioranza) da gruppi di volontari giunti dall’estero. Circa 4.000 furono gli italiani inquadrati nella XII Brigata internazionale definita Battaglione (e poi Brigata) Garibaldi, guidata dal repubblicano Randolfo Pacciardi e successivamente dal comunista Luigi Longo, che diverrà in seguito Commissario ispettore generale delle Brigate internazionali, di fatto il dirigente più alto in carica. Purtroppo, come Stato nazionale, fummo al contrario i protagonisti indiscussi anche dell’attacco alla Repubblica democratica. L’italiano prima ancora del tedesco, per molte ragioni. Per il numero complessivo di soldati spediti ai fronti di guerra, stimato in più di 50.000 unità, più del doppio dell’alleato nazista. Per il ruolo dirigente degli ufficiali militari, mandati per guidare le operazioni belliche e non (solo) per assistervi da consiglieri. Per la quantità di materiale bellico inviato, in particolare aerei da bombardamento (circa 750 pezzi), carri armati, navi da guerra e corsare, dedite cioè all’affondamento piratesco dei mezzi – civili e militari – legati alla Repubblica o all’Unione sovietica. Numerosi di questi aiuti rimasero generosamente alla Spagna franchista dopo la fine della guerra, rimarcando il rapporto di subordinazione al fascismo italiano, un rapporto che d’altronde provocò più di qualche incomprensione con Franco nella gestione della vicenda militare. È in tale contesto che si situa la vicenda del bombardamento italiano di Barcellona. Già dal ’37, secondo lo storico liberale Gabriele Ranzato, autore del prezioso volume L’eclissi della democrazia, «l’atteggiamento e la condotta dell’Italia si erano fatti così aggressivi e tracotanti che la pur prudente Francia riuscì a convincere la Gran Bretagna a convocare una conferenza internazionale per porre fine agli episodi di pirateria». Messa da parte ogni remora nel tentativo non tanto di instaurare un regime fascista in Spagna, ma di sottomettere politicamente il paese agli interessi italiani, Mussolini e Ciano avviarono una «campagna di bombardamenti senza precedenti», raggiungendo il culmine nelle giornate di marzo dove Barcellona venne investita da molteplici ondate di incursioni aeree che produssero conseguenze rovinose: 57 raid aerei in 41 ore, 1043 morti e 1626 feriti, tutti civili residenti nel centro cittadino, soprattutto nel barrio gotico, nessun obiettivo militare colpito. L’ambasciatore tedesco in Spagna, Stohrer, telegrafava così al suo Ministro degli esteri: «Mi si informa da Barcellona che gli effetti degli attacchi aerei compiuti qualche giorno fa su Barcellona dai bombardieri italiani sono stati letteralmente terribili. Quasi tutti i quartieri della città ne hanno sofferto. Non c’è indizio che si sia cercato di colpire degli obiettivi militari». La risposta di Mussolini alle critiche internazionali rivolte a seguito dei bombardamenti terroristi è d’altronde nota: «lieto che gli italiani riescano a destare orrore per la loro aggressività anziché compiacimento come mandolinisti». Settantotto anni dopo un’operazione catalogabile come crimine di guerra, i cittadini di Barcellona (e delle altre città, catalane e non, parimenti bombardate, come Valencia) ancora aspettano il riconoscimento dello Stato italiano per il ruolo criminale svolto. Se la Germania, valutando storicamente il proprio ruolo nel bombardamento di Guernica, ammise le proprie responsabilità con un atto parlamentare (anche se in maniera ambigua e deficitaria, salvaguardando contestualmente «l’onore» dell’esercito e la disciplina dei soldati), l’Italia ancora insiste pubblicamente a celare momenti tragici della sua storia. Questo ottantesimo anniversario potrebbe in questo senso essere più di una semplice ricorrenza memorialistica.