Con l’affacciarsi dell’anno nuovo si rinnovano le attese (il cui carattere rituale non le priva di affetto) che il futuro immediato arida a noi e a coloro che ci sono cari (per amore, parentela, amicizia, affinità culturale o politica e, per estensioni di solidarietà via via più generali, per un sentimento universale di fraternità). Gli auguri sono necessariamente generici, perché la cosa importante non è la realizzazione di questo o di quell’altro desiderio, ma il sentirsi vicini gli uni agli altri, il mantenere vivo internamente lo stato emotivo (e mentale) di speranza che ha bisogno di condivisione per esistere.

La capacità di sperare, che ci mantiene psichicamente vivi nei momenti più difficili, quando tutto sembra perduto e senza apparenti vie d’uscita, richiede la fiducia nella stabilità della propria posizione nel mondo. Tuttavia, la speranza non è la proiezione nel futuro del senso di stabilità ma, in un certo senso, lo contraddice: essa esprime la fiducia nella propria possibilità di spostarsi dal proprio centro di gravità, di destabilizzare la propria esistenza, per scoprire la vita nella sua più imprevista ricchezza e intensità che la rende degna di essere vissuta. Detto in altre parole, la speranza trasforma il senso di sicurezza, sul quale si appoggia, in piacere di vivere ampliando, destrutturando e riformulando i confini della propria esperienza.

La speranza non guarda all’indietro, verso il ripristino di uno stato di benessere, non è un sentimento rassicurante (anche se spesso la si interpreta in questo senso): traccia, piuttosto, la prospettiva di un movimento trasformativo che implica incognite e rischi. È sempre legata a un’esperienza di perdita che rende necessaria una trasformazione. La differenza tra la speranza vera e propria e l’illusione consolatoria corrisponde alla differenza tra l’elaborazione del lutto e la sua negazione. La speranza nasce dal lutto:
ciò che è perduto può essere ritrovato solo a condizione di riconoscere e di vivere il dolore della sua perdita e accettare che non può tornare più identico a prima. Sperare è presentire, immaginare, la direzione della vita che conferisce alle cose un senso di continuità e di costanza nella loro godibilità proprio nel momento in cui le trasforma.

Una crisi sociale che appare senza vie d’uscita credibili sta consumando le risorse collettive di speranza. Si vive con i risparmi di fiducia nel futuro, accumulati precedentemente. Perché si riprenda la produzione di speranza (che non è mai cieca, ma visione lucida anche quando fallisce) dobbiamo fare i conti con quei lutti che volentieri eviteremmo di affrontare.

Due su tutti: il tramonto della coppia coniugale così come l’abbiamo conosciuta e il superamento del senso di appartenenza legato a una continuità di luogo, lingua e costumi. La nostra speranza alloggia nella ridefinizione del rapporto tra l’uomo e la donna e nella mescolanza delle tradizioni.

Bisogna andare oltre la concezione del padre come figura della legge, in cui siamo immersi, restituendo alla donna tutto il potenziale trasformativo e di emancipazione dalle relazioni normative, non per dissolvere la paternità, ma per collocarla nella sua funzione di apertura al desiderio nel corpo femminile, apertura in cui il nuovo ( il figlio) potrà alloggiare.

La ridefinizione della relazione coniugale, attraverso la valorizzazione della femminilità, cambia anche il significato della filiazione (il senso di appartenenza a una tradizione): sposta la convivenza all’interno di una comunità dalle norme che definiscono storicamente la sua cultura all’eros dell’apertura all’altro.