«Un blocco d’ambra», questo erano i Paesi baltici: Königsberg e Riga rappresentavano la facciata occidentale, tedesca; Tallin e Tartu quella settentrionale, scandinava; Daugavpils e Vilnius quella orientale, russa. «Ma la storia ha frantumato quel blocco d’ambra e rimescolato i frammenti». In Anime baltiche (traduzione di Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo, postfazione di Alessandro Marzo Magno, Iperborea, pp. 500, euro 19,50), lo scrittore, giornalista e viaggiatore olandese Jan Brokken – già noto in Italia per il suo romanzo biografico sul pianista russo Youri Egorov (Nella casa del pianista, Iperborea 2011) – attraverso un lavoro di vera e propria «archeologia della contemporaneità» è andato alla ricerca di quei frammenti e ce ne ha raccontato la storia. Il pregio dell’opera di Brokken sta nel fatto che, da vero narratore qual è, non pretende di ricollocare staticamente quei frammenti nei loro luoghi d’origine per esibirne soltanto la provenienza, ma ne segue il movimento durante la deflagrazione, una deflagrazione di cui riusciamo miracolosamente a sentire il suono, l’odore, il dolore.

Attraverso un viaggio decennale che comincia nel 1999 in Estonia, Lettonia e Lituania, lo scrittore ha ripercorso i luoghi della memoria e del presente che di quella memoria si sostanzia, seguendo il suono delle voci che gridano ancora da sotto le macerie stratificate dei regimi, le voci di quelle anime baltiche che non hanno smesso di vivere, e fecondando lo spirito del futuro si propagano lontano dal luogo d’origine per accendere nuovi fuochi, come la scheggia di una bomba finita lontano. Così, come in una sorta di Spoon River baltica, riusciamo a udire le voci di Sergej Ejzenštein, Roman Kacev (al secolo Romain Gary), Hannah Arendt, Immanuel Kant, Gidon Kremer, Eduard von Keyserling, Jacques Lipchitz (Chaim Jacob Lipchitz), Mark Rothko (Marcus Rothkowitz), Arvo Pärt e molti altri ancora, personaggi più o meno noti costretti nella maggior parte dei casi a vivere più di una vita – lo dicono i diversi nomi che molti di loro assumono – nel tentativo di conservare un’identità, come organismi mutanti più volte distrutti e più volte rinati. L’identità è ciò su cui si fonda la dignità, non a caso è ciò che prima di tutto viene tolto agli internati nei campi di sterminio, sostituita da un numero.

Hannah Arendt – come Kant originaria di Königsberg (oggi Kalingrad: «un nome in cui risuona ancora l’eco della dittatura, lo stridore di una chiave infilata nella serratura di una cella») – con la sua determinazione assoluta a essere se stessa ne fu un esempio: difendersi, lottare per se stessi, avere una coscienza politica e non rinnegare la propria identità, questo era fondamentale, anche nella vita amorosa con i suoi conflitti: «Mi sembra sempre ancora incredibile che io possa avere sia il ‘grande amore’ che l’identità della mia persona» scriveva la filosofa ebrea ripensando al suo amore di gioventù per Martin Heidegger.

Il conflitto d’identità è ancora protagonista della vita di Romain Gary, che «ebbe tante vite quante ne ebbe la sua città». Vilnius, fino alla Prima guerra la «Gerusalemme del Nord», porta tanti nomi quanti sono gli occupanti che si sono avvicendati nella sua storia dolorosa: Wilno in polacco, Wilna in tedesco, Vilnius in russo, Vilné o Wilne in yiddish, Vilnius in lituano. Lo scrittore, aviatore, diplomatico Gary, amava raccontare una storiella emblematica: «C’era una volta un camaleonte. Lo mettevano sul verde e diventava verde, lo mettevano sul blu e diventava blu, lo mettevano su una tavoletta di cioccolata e diventava cioccolata. Quando lo misero su un plaid, scoppiò.»

Sfuggito all’inferno di Vilnius e sopravvissuto a due guerre mondiali, la prima a est, la seconda in occidente, Gary concluse la propria vita con «poche frasi buttate giù in fretta, frasi brutte, che urlano solitudine» da un biglietto sul letto della sua casa parigina di rue du Bac, dove si suicidò il 2 dicembre 1980, solo pochi anni dopo aver vinto il Premio Goncourt con La vita davanti a sé (Neri Pozza 2014); ma per firmare usò uno pseudonimo, Emile Ajar, la cui identità sarebbe stata rivelata solo a morte dell’autore già avvenuta.

Nel capolavoro di Gary, i ragazzini ebrei di Vilnius diventano i ragazzini arabi di Marsiglia, o di Nizza, o delle banlieux di Parigi, un’esperienza di esclusione e disprezzo per lo scrittore non ancora dimenticata. Le ferite che ci si porta dentro, quando non si rimarginano, conducono lentamente alla morte, uccidono dall’interno, anche se fuori le bombe hanno smesso di cadere e non si spara più.

«Va tutto bene», ma talvolta è proprio «la vita in tempo di pace» a non concedere tregua. È quando cessa il boato delle esplosioni che le voci dei demoni cominciano a diventare assordanti. Così anche Mark Rothko, il nome che il lettone Marcus Rothkowitz prese su consiglio di un mercante newyorkese nel 1940, morì suicida a New York nel 1970, quando ormai la Storia aveva cessato di mettere a repentaglio la sua vita: ma non dimenticò mai la sorte degli ebrei della sua città natale, né dimenticò la repressione: mostrava ripetutamente un segno che aveva sul naso, dov’era passata la frusta di un cosacco quando, in braccio a sua madre, si era trovato in mezzo a una dimostrazione dispersa dalla polizia zarista. Rimase sempre un rivoluzionario, e quando nel 1958 l’elegante ristorante Four Seasons di New York gli commissionò dei dipinti murali, accettò l’incarico con l’intento di dipingere «qualcosa che rovini l’appetito a ogni son of a bitch che mangerà in questa sala.»

Il reportage romanzato di Brokken, cupo e brillante allo stesso tempo, che riflette l’intelligente curiosità e l’equilibrio di un viaggiatore artista e intellettuale che ha tra i suoi illustri precedenti l’oramai esauritissimo viaggio In Europa del conterraneo Geert Mak (Fazi 2011), è anche una storia raccontata attraverso i nomi di paesi, attraverso le vie, l’aspetto delle città che mutano come i loro abitanti: ma se questi si allontanano, un luogo rimane ancorato a uno spazio, sebbene le epoche cambino. L’atmosfera di un luogo sembra ostinarsi a non mutare: la luce, immobile, magica nella sua quasi indifferenza, non cambia. La luce che Brokken ritrova nei Paesi baltici è ancora e sempre la luce della stazione abbandonata in una nobile Curlandia (Lettonia) oramai decaduta, in cui la distrutta eppure ardente Sophie del Colpo di Grazia di Yourcenar chiede in silenzio di essere giustiziata.

Nel settembre del 1999, nel porto di Pärmu, sul Golfo di Riga, a bordo del Grachtborg, poco dopo la mezzanotte, lo scrittore viene interrogato dai doganieri sospettosi: «Che cosa ci fa su questa nave?» – «Volevo vedere il mar Baltico» – «Perché, cos’ha di speciale?» – «Secondo i marinai è il più bello di tutti.» – «Mai notato». – «È la luce a essere speciale. Morbida e calda. In autunno si infiamma». – «E lei cosa fa di lavoro?» – «Lo scrittore.» Spiegato il mistero: «Ah! Un pazzo» dunque, «ma non pericoloso.» Va bene così. Del resto lo disse anche Romain Gary nell’esergo del suo capolavoro del 1975, «la vita ha sapore solo per i pazzi.»