Alexis Tsipras lo ha dichiarato nella maniera più semplice e lineare possibile. La posta in gioco nella logorante guerra di trincea che da mesi oppone Atene a Bruxelles e Berlino, occupando, quasi per intero, la scena europea è «l’ammissione di un fallimento».

Un fallimento teorico, economico e, soprattutto sociale e politico. Dopo anni di applicazione delle politiche di austerità imposte e pilotate dalle istituzioni europee nessuno dei risultati promessi è stato raggiunto.

Rendendo chiaro ai più che l’indebitamento, e il suo costo crescente, sono sostanzialmente inesauribili, un meccanismo destinato a riprodursi all’infinito e non solo in Grecia. Si tratta, infatti, di un gigantesco processo di concentrazione della ricchezza destinato a protrarsi fino a quando una forza politica di senso contrario (e non certo su scala nazionale) non intervenga ad arrestarlo e invertirne la rotta.

La vittoria di Syriza ad Atene è stata, prima di ogni altra cosa, la piena percezione di questo fallimento da parte dei cittadini greci. Favoriti, in questa consapevolezza, dall’averlo vissuto sulla propria pelle. Ciò che il premier greco pretende ora è che anche gli artefici delle politiche che hanno condotto a questo disastro riconoscano l’errore cessando di ribadire insistentemente, come un disco rotto, i versetti satanici della loro dottrina. È del tutto evidente che non intendono farlo perché anche la più piccola crepa nel fortilizio, cui una inconsapevole comicità affida la «stabilità dei mercati», rischierebbe di rendere pericolante l’intero edificio. L’ assunto è che, con altre politiche, i conti, più che non potere, non devono tornare. E, purtuttavia, sul fronte della politica, imbarazzi e scricchiolii cominciano a mostrarsi. Perfino la ultraconservatrice Frankfurter Allgemeine, inizia a domandarsi timidamente cosa sia andato storto nelle ricette restrittive. Gli argomenti a loro favore si fanno, infatti, sempre più improbabili, sempre meno pragmatici e sempre più ideologici.
Un impareggiabile Lorenzo Bini Smaghi, già alto funzionario della Bce, sostiene che la democrazia greca (secondo la ben nota formula che Stuart Mill applicava alla libertà) debba trovare il suo limite in tutte le altre democrazie dell’eurozona in cui si suppone che l’austertà goda di un indiscusso entusiasmo popolare. Come se le politiche economiche europee fossero sottoposte a una qualche forma di controllo democratico e come se la grande maggioranza dei cittadini europei potesse trarre, come il capitale finanziario, qualche vantaggio dallo strangolamento di Atene. Forte è la tentazione di rispondere con la battuta di un celebre film di Elio Petri: «Ma che minchia c’entrano con la democrazia!» Fatto sta che questo è il livello di cultura politica dei «tecnici» che spediamo a Francoforte.

Quanto alla scolorita socialdemocrazia europea, non è certo da meno. Il presidente dell’Europarlamento, il socialdemocratico Martin Schulz non trova di meglio dal dichiarare che Tsipras e Varoufakis gli danno sui nervi e di questa storia greca non se ne può davvero più. Qualche commentatore in Germania, come Wolfgang Muenchau su der Spiegel, si sorprende che la Spd, potendo contare fra l’altro sulle crescenti divisioni in seno alla Cdu tra la Cancelliera Angela Merkel e i pasdaran del risparmio a tutti costi, a partire dalla questione della Grecia non colga l’occasione per introdurre qualche elemento di argine alle logiche del rigore, sul piano europeo e su quello interno. Ma, invece di spingere Merkel a un compromesso con Atene, anche contro buona parte del suo partito, (circola voce che i poteri decisionali di Schauble siano stati alquanto ridimensionati) i socialdemocratici sembrano collocarsi piuttosto sul fronte dello zelo restrittivo. Insomma, una occasione inspiegabilmente perduta. Ma forse, invece, una spiegazione c’è. Le forze di sinistra pienamente convertite al neoliberismo, dalla Spd, al Pd, allo spettrale Partito socialista francese, mal digeriscono possibili confronti con le aspirazioni politiche di Syriza e con la rinnovata democrazia greca. E allora si capisce che la caparbia resistenza di Atene possa dare sui nervi. Non è dunque sorprendente che proprio queste forze tifino, più o meno apertamente, per una parziale capitolazione della Grecia.

Ma c’è anche un’altra voce che da sui nervi ai falchi di Berlino: è una voce grossa, quella americana, che non cessa di esercitare pressioni perché i tedeschi allentino i cordoni della borsa e comincino a preoccuparsi di espansione in Europa.

È vero che Washington, come azionista di maggioranza dell’Fmi, potrebbe influire direttamente sulla situazione greca. Ma anche da quelle parti nessuno vuole mettere in questione i dogmi del credito (esponendosi a ulteriori pretese e richieste) e sarebbe dunque preferibile agire per interposta Europa. Intanto, in Germania, come testimonia una ricerca citata ieri da Rita di Leo su questo giornale, cresce la diffidenza dei tedeschi nei confronti della Nato e una sostanziale indisponibilità (le cui cause storiche e i cui interessi economici non sono difficili da immaginare) a lasciarsi coinvolgere direttamente in un eventuale scontro sui confini orientali.

Fatto sta che la compresenza di una ostilità verso la Nato (per quanto pericolosa e incosciente si riveli la sua politica nei confronti della Russia) e la pretesa di esercitare una egemonia europea attraverso l’imposizione dei propri modelli economici spinge nella direzione del nazionalismo tedesco. Il cosiddetto Grexit fermerebbe del tutto il corso, già piuttosto sgangherato, della costruzione politica europea. E senza Europa politica una Germania «antiatlantica» rappresenterebbe una prospettiva decisamente inquietante. Angela Merkel ha dunque svariate ragioni politiche, immediate e di più lunga prospettiva, per chiudere un onorevole compromesso con la Grecia di Tsipras. Ma dovrà fare i conti con i pregiudizi e gli accecamenti ideologici che il suo stesso partito ha contribuito a diffondere nell’opinione pubblica tedesca, nonché con i Fachidioten, gli «idioti specializzati», cui ha affidato il governo economico dell’Unione.