Appesa tra la consapevolezza di non poter restare immobile, pur non venendo meno al principio che si è data di non interferenza nelle vicende interne agli altri Stati, e la tentazione di rimpallare tutte le responsabilità sugli Stati Uniti e l’Occidente.

Così appare la Cina sulla sua stessa stampa quando si parla delle ramificazioni del sedicente Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi. Da una parte quindi una potenza economica che deve far valere il proprio ruolo internazionale e difendere i propri interessi, possibilmente declinando l’azione da punto di vista diplomatico. Dall’altra la denuncia dei doppi standard con cui accusa i giornali occidentali di trattare gli attacchi in territorio cinese.

«Soltanto le vittime occidentali del terrorismo meritano compassione, non i civili cinesi cui è toccato in sorte lo stesso destino. Questo è un atteggiamento ridicolo e assordo», sentenziava il China Daily trascorsi pochi giorni dagli attacchi di Parigi del novembre scorso, nel descrivere quelli che a suo giudizio erano i pregiudizi di Ursula Gauthier, corrispondente francese del Nouvel Observateur, espulsa dalla Cina per un reportage in cui metteva in relazione gli attacchi nello Xinjiang, regione abitata dalla popolazione turcofona e musulmana degli uiguri, con la politica discriminatoria di Pechino nei loro confronti.

Già due anni fa il Califfo proclamò la Repubblica popolare «un Paese che calpesta i diritti dei musulmani». Alla fine dello scorso anno «l’ufficio di propaganda» del Califfato pubblicava invece un video in mandarino con l’intento di reclutare ad ampio raggio nella Repubblica popolare. Da mesi intanto il tabloid su posizioni nazionaliste Global Times aveva colto l’occasione per chiedere un’ulteriore stretta sui social network, dopo aver analizzato la strategia comunicativa dell’Isis. «I militanti stanno espandendo la loro influenza attraverso un invenzione occidentale», chiosava, «non è imbarazzante e ironico».

L’evento spartiacque fu però lo scorso novembre l’uccisione di Fan Jinghui, il primo ostaggio cinese giustiziato dai militanti dell’Isis. La tragedia, secondo Caixin, ha dimostrato che la Cina «è considerata un nemico». Il magazine non mancava inoltre di sottolineare ancora una volta gli attacchi nello Xinjiang «che per la Cina sono paragonabili a quelli dell’Isis». Concludeva quindi spiegando che il Paese doveva prepararsi a partecipare a operazioni anti-terrorismo, «la retorica e le azioni devono accordarsi al suo stato di potenza mondiale».

Ma almeno da un anno e mezzo il «che fare?» tormentava gli opinionisti d’Oltre muraglia. D’altronde «l’impatto negativo del caos iracheno per la Cina è chiaro», scriveva il Nanfang Zhoumo, settimanale un tempo tra i più indipendenti, ora «normalizzato» da Pechino, che ha messo i conflitti in Medio oriente in relazione ai rischi per le strategie di sviluppo commerciale e infrastrutturale cinese lungo la Via della Seta. Per il giornale il ritiro dall’Iraq e lo spostamento dell’asse d’interesse Usa sulla regione dell’Asia Pacifico sono stati «irresponsabili» perché hanno innescato «circolo vizioso impossibile da controllare».

Concetti che ritornano a più riprese Scrive ad esempio iFeng che la base per poter affrontare l’Isis è la ricostruzione degli equilibri nella regione (da qui anche il sostegno al governo di Assad in Siria) e la necessita di rigettare la lotta contro il terrorismo intesa come una «guerra santa». Il tutto inframmezzato da una copertura costante di ciò che avviene in Siria in Yemen, in Libia,in Africa così come alle operazioni di polizia in Malaysia e in altri Stati del Sudest asiatico.