Sono tante le voci che costruiscono nel corso del tempo la «verità» di un popolo. Lo storico che di quel popolo scriva la storia non può ascoltarle tutte, naturalmente. Ma proprio perché scrivere implica scegliere, diventa assai significativa la scelta di quali siano le voci di cui si dà conto nella scrittura e di quelle che vengono ignorate. E nelle opzioni dei singoli storici si riflettono spesso le ideologie dominanti: per i primi decenni del Novecento, negli Stati Uniti, la storia «ufficiale» della schiavitù fu quella tramandata da bianchi razzisti, che non citavano una sola delle voci afroamericane che nel secolo precedente avevano raccontato la propria esperienza di schiavi. Anni più tardi, gli storici che invece le hanno ascoltate hanno riscritto quella storia, e da lì l’intera storia degli afroamericani, anche dopo la fine della schiavitù. Allo stesso modo è stata riscritta la storia delle donne, della classe operaia, delle minoranze etniche e culturali.

In una parola è stata rimontata, un frammento dopo l’altro, l’intera storia degli Stati Uniti. E rimane il grande merito di Howard Zinn l’aver prodotto la prima sintesi storica – la People’s History of the United States – inclusiva di quelle «nuove» storie. Era il 1980. Dopo quel momento nessuno ha più potuto scrivere facendo come se neri, donne, operai eccetera non fossero «entrati» nella storia. Oppure: chi l’ha fatto, ha compiuto un deliberato atto di mistificazione e di elitaria arroganza.

Nel 2004, con il contributo di Anthony Arnove, Zinn pubblicò una raccolta antologica in cui raccoglieva quelleinnumerevoli voci di cui aveva dato conto direttamente e indirettamente nel libro di quasi un quarto di secolo prima. Una seconda edizione ampliata uscì nel 2009 ed è questa che Il Saggiatore ha tradotto ora con il titolo: Voci del popolo americano (pp. 623, euro 32). È lo stesso editore che negli anni scorsi aveva già tradotto la Storia del popolo americano (2005)e i saggi di Disobbedienza e democrazia (2003). Ora, con le Voci, completa insieme l’opera di Zinn in italiano e il proprio omaggio all’autore, scomparso nel gennaio 2010. Non si può dare conto qui di quante siano le voci che in mille modi e toni, a nome individuale e collettivo si sono levate dall’interno di ogni componente del popolo americano a chiedere, proporre, protestare, denunciare; a chiamare alla resistenza; a ragionare sul presente e a elaborare i connotati di una diversa società futura.

Nel libro ci sono dunque le voci degli schiavi delle colonie, dei neri liberi e dei movimenti contro la segregazione razziale del Novecento; delle donne che per prime hanno chiesto l’uguaglianza nell’Ottocento e di quelle della «seconda ondata» femminista degli anni Sessanta-Settanta del Novecento; dei nativi americani; dei movimenti contro le guerre (dalla Grande guerra al Vietnam, alla guerra in Iraq); dei movimenti operai; dei movimenti di liberazione, resistenza e opposizione (dagli omosessuali ai movimenti degli immigrati e a Occupy).
Parlano semplici cittadini e associazioni di minoranze lungimiranti; intellettuali e politici; poeti e scienziati; riformatori e rivoluzionari. Bianchi, neri e indiani: come non ricordare almeno il nero libero Benjamin Banneker, che nel 1791 ricorda a Thomas Jefferson che cosa vogliano dire le sue parole «Dio ha creato tutti gli uomini uguali»; o le parole di Tecumseh per convincere gli altri indiani alla coalizione e di Capo Giuseppe al momento della resa; oppure di Adrienne Rich sul corpo delle donne; oppure ancora di Alex Molnar che scrive a Bush padre: «Dov’era lei, signor presidente, quando l’Iraq uccideva la sua gente con i gas?»; o infine di un «clandestino» di oggi: «Mi chiamo Gustavo Madrigal. Non ho documenti, non ho paura, non provo vergogna».

È una polifonia che Zinn e Arnove armonizzano dando un ordine al materiale – organizzato in ventitré capitoli e un epilogo – e legando la successione grossomodo cronologica dei documenti con brevi introduzioni esplicative. L’epilogo è il testo della canzone di Patti Smith, People have the power, del 1988: «Ascoltate: io credo che tutto quello che sogniamo / Può realizzarsi se saremo uniti / Possiamo cambiare il corso del mondo / Possiamo invertire la rotazione della terra». È una sintesi poetica di quello che le mille voci, prese nel loro insieme, hanno cercato di dire (e da cui anche il film tratto dalle Voci nel 2009, in cui attori e attrici famosi leggono ognuno un documento, estraeva un filo di ragionamento, non solo una risposta emotiva). Ed esprime anche, metaforicamente, il nucleo politico profondo della convinzione di Howard Zinn che la storia non è mai finita, che il corso del mondo può essere cambiato.

Alcuni dei suoi critici – più o meno quelli cui il mondo va bene com’è – hanno scritto che la Storia del popolo americano era il frutto della personale interpretazione della storia di Zinn, cioè che la sua prospettiva antielitaria faceva assumere al «popolo» caratteri non suoi. Con le Voci Zinn ha, per così dire, fornito le prove che la Storia non aveva tracciato un percorso immaginario. Qualche anno fa, lo studioso afroamericano Henry Louis Gates aveva parlato delle autobiografie degli ex schiavi come di una «contronarrazione», che nello stesso momento in cui veniva presa in considerazione imponeva la riscrittura della storia. Non c’è dubbio che la sintesi di Zinn fosse una contronarrazione, risultante da un lavoro storiografico che aveva incluso e distillato le tante, più piccole contronarrazioni che hanno punteggiato e attraversato la storia del popolo degli Stati Uniti.