Donatella Magri insegna presso il dipartimento di Biologia ambientale dell’università di Roma La Sapienza, dedicando il suo impegno a ricerche paleobotaniche e palinologiche sul periodo Quaternario. Noi viviamo nella seconda delle sue due epoche: l’Olocene. Eppure le nostre esistenze scorrono sullo sfondo di paesaggi da esse talmente modificati che autorevoli voci, tra cui il Nobel per la chimica Paul Crutzen, ci collocano ormai nell’era geologica dell’Antropocene. Ammettere che abbiamo trasfigurato il volto vegetale dei territori in cui agiamo nemmeno ci meraviglia più.

Corrisponde a verità il fatto che l’essere umano causasse disboscamenti già fin nel Neolitico?

Sì, se parliamo dell’Europa settentrionale. Volgendo invece lo sguardo all’Italia, non notiamo azioni drammatiche fino al Medioevo. Probabilmente perché l’intervento antropico risulta più efficace dove l’ambiente risente di altre vulnerabilità. Alle alte latitudini la vegetazione non mostra grandi capacità di recupero, mentre da noi piove e contemporaneamente l’irradiazione solare è maggiore: trent’anni e i boschi ricrescono.

Tra le sue ricerche, la più citata riguarda la Valle di Castiglione, sorta alla fine dell’Ottocento dopo il prosciugamento dell’omonimo lago vulcanico, al limite orientale della capitale. Quali sono i motivi dell’importanza di questo studio?

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L’analisi paleobotanica dell’area, che ha restituito una delle sequenze più lunghe d’Europa, ha permesso di ricostruire senza interruzione la storia della vegetazione a Roma negli ultimi trecentomila anni, rivelando un alternarsi di fasi forestali con fasi caratterizzate da una vegetazione aperta di tipo steppico, le più comuni e frequenti. Qualora, pensando ai Castelli e ai Monti Tiburtini, fossimo tentati dal dedurre che, libere dalla mano pesante dell’homo faber, a Roma sarebbero cresciute le foreste, cadremmo in un grosso equivoco. La scienza racconta che, in realtà, per la maggior parte del tempo abbiamo avuto praterie con pochi alberi e, a tratti, addirittura una vegetazione semi-desertica. La fase attuale è un’eccezione, non la normalità.

Da quanto dura questa eccezione?

Il periodo interglaciale in corso, l’Olocene, va avanti da 11700 anni. Prima è attestato un andirivieni di popolazioni forestali, con un picco intorno a centomila anni fa, quando dominavano i faggi, diffusi oggi in montagna. Le foreste sono tipiche dei periodi interglaciali; le praterie di quelli glaciali, quando gli alberi scarseggiano non tanto per le temperature, che non sono mai così fredde come vuole l’immaginario collettivo, quanto per la siccità. L’interglaciale precedente l’attuale, l’Eemiano, era caratterizzato da una vegetazione mediterranea sempreverde: faceva più caldo e l’area di Roma doveva avere un aspetto «siciliano».

Chi studia la storia della vegetazione finisce per tracciare anche ipotesi sui possibili sviluppi futuri innescati dai cambiamenti climatici. Le piante sanno sempre adattarsi?

Non ci riescono quando finiscono le fasi interglaciali: la regressione verso una vegetazione aperta, di fatto una deforestazione, è allora rapida al punto da assumere connotati catastrofici. In pochi secoli possono andare perduti boschi che hanno impiegato migliaia di anni a costituirsi. Eventi simili si sono verificati diverse volte, ma non è facile capirne i sintomi e, di conseguenza, non siamo in grado di prevedere quando avverrà il prossimo avvicendamento. Parliamo spesso e male di riscaldamento globale, discutendo molto di innalzamento delle temperature e pochissimo del rischio di siccità: il nostro principale problema. Nelle ultime quattro migliaia di anni si riscontra un progressivo inaridimento delle aree mediterranee. In Italia, se insieme alle temperature aumentassero anche le precipitazioni, si svilupperebbero delle foreste tropicali: il clima sarebbe certamente diverso, ma avremmo comunque un ambiente ricco di vita. Qualora ci venisse a mancare l’acqua, ci troveremmo invece sprofondati in un cataclisma.

In che direzione andrà la paleobotanica?

Certamente è auspicabile una maggiore collaborazione con i genetisti, che possono studiare i mutamenti tra le varie popolazioni di piante nella loro distribuzione geografica.
Nell’ambito del progetto europeo Aurora, al quale partecipo fornendo dati dall’Italia, un laboratorio norvegese sta cercando di mettere in relazione le variazioni chimiche della composizione del granulo pollineo con l’esposizione ai raggi ultravioletti. Per capire quanto questo lavoro sia importante, basti pensare che i grandi processi evolutivi si ipotizza siano avvenuti proprio in seguito a trasformazioni nell’intensità dei raggi ultravioletti.

Gli animali migrano e si estinguono. Esistono esempi di specie vegetali che hanno abbandonato Roma?

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Una pianta della famiglia dell’olmo, la Zelkova, era diffusa in Italia centrale fino a trentacinquemila anni fa. Oggi la troviamo solo in Sicilia, oltre che a Creta e sul Caucaso. La Pterocarya, simile al noce, era presente nella Valle di Castiglione fino a duecentomila anni fa; ora si è ritirata nel Caucaso e nell’Iran centro-settentrionale. La Tsuga vive in Nord America e in Cina, ma fino a seicentomila anni fa godeva di buona salute nel Lazio.

La Sciadopitys si è estinta in Italia, la sua ultima ridotta in Europa, da due milioni di anni; sopravvive niente meno che in Giappone. A fronte delle tante specie scomparse dal territorio di Roma nel Quaternario, non ne abbiamo nessuna nuova in arrivo. È in corso un graduale depauperamento della flora. Non facciamone però un dramma: la natura è dinamica, non sa stare immobile.

La paleobotanica fornisce anche risorse decisive agli archeologi. E, a volte, smonta tesi date per scontate. Qual è la verità sul cipresso? E l’abete bianco?

Si diceva che Abies alba fosse scomparso dal Lazio perché sfruttato oltremisura dai romani per l’edilizia. Dagli studi pollinei abbiamo tuttavia capito che gli ultimi boschi, nell’Italia centrale, erano già spariti oltre settantamila anni prima. Evidentemente i romani lo importavano massicciamente dalla Calabria o dalla Corsica, non avendolo più a disposizione nel cortile di casa. Potevano permetterselo.

Cupressus, secondo il mito, sarebbe venuto dal Mediterraneo orientale: da Cipro, come evidenzia il nome. Eppure, dopo aver i genetisti studiato il Dna e io i fossili, è risultato evidente che i cipressi italiani sono qui da tempo immemore.

Quali sono invece le piante portate dai romani?

Alessandra Celant ha identificato i più antichi semi di limone del Mediterraneo in una fossetta votiva del Carcere Mamertino. Sono di età augustea, vengono dall’Oriente. Anche il pesco fu importato, nel I secolo d.C., così come il melone. Del pino domestico non abbiamo evidenze prima dell’avvento della civiltà romana. In tanti lo considerano un emblema del Belpaese; va a finire che anche lui è uno straniero.

Nell’area di Tivoli c’è poi lo strano caso dello Styrax, una pianta da noi diffusa all’inizio del Quaternario, di cui in seguito si perdono le tracce fino a quando non ricompare nei dintorni di Villa Adriana. Sarà stata Fortuna a spingere i romani a reintrodurlo dalla Siria, magari in virtù delle sue proprietà medicinali e del profumo intenso? Oppure è una reliquia, il relitto di una popolazione talmente ridotta da non aver lasciato fossili? Non lo sappiamo.

La donzelletta di Leopardi porta con sé «un mazzolin di rose e di viole». Pascoli obietterà che sono fiori che non crescono nella stessa stagione. Per lui le citazioni botaniche generano poesia quanto più sono precise. La paleobotanica è una disciplina poetica?

È la più visionaria delle scienze, perché ci restituisce i colori e gli odori; prima di tutto, riporta in vita le atmosfere respirate nei mondi passati. Quando ricostruisco la vegetazione di un’epoca tramontata, la vedo crescere nuovamente davanti agli occhi in un film capace di appagare il desiderio eterno di una macchina del tempo.

I paesaggi svaniti passo quindi a immaginarli intatti in altri luoghi. Vado tanto indietro nella storia, quanto lontano nella geografia. A Roma ritrovo le steppe dell’Afghanistan e la macchia dell’Africa settentrionale; i boschi di abeti delle Alpi e i faggi tedeschi. Fino alle remote paludi della Florida, punteggiate dal Taxodium. Ferma, vengo avvolta da un Pianeta in divenire. La Terra non è immobile.