Entre Ríos è una provincia argentina attraversata da migliaia di corsi d’acqua grandi e piccoli e incuneata tra due grandi fiumi, il Paraná e l’Uruguay: quasi un’isola, dove la lingua dei cosiddetti alemanes del Volga viene ancora parlata dai discendenti delle comunità tedesche insediate in certe zone della Russia e poi emigrate in terre infinitamente diverse e lontane; ma anche l’italiano, l’yiddish, l’arabo hanno lasciato tracce evidenti nel complesso intreccio linguistico di un territorio che la grande ondata migratoria europea dei secoli scorsi ha popolato di colonie agricole, piccole città e paesini sperduti.

Proprio in questa regione bizzarra, fatta di basse ondulazioni e vaste distese acquitrinose dove il confine tra cielo e acqua si attenua fino a scomparire, è ambientato L’inondazione (Nottetempo, pp. 184, euro 13) di Adrián Bravi, che, nato a nel 1963 a Buenos Aires in una famiglia di origini italiane, più di trent’anni fa ha compiuto una sorta di viaggio a ritroso ed è tornato nelle Marche da cui erano partiti i nonni emigranti, per diventare uno scrittore che usa la nostra (e ormai sua) lingua per costruire romanzi dallo stile personalissimo e sommesso, con una sotterranea vena di stralunato umorismo.

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Bravi, va detto, è uno scrittore difficile da classificare (sempre che sia necessario farlo), da incasellare in una tradizione letteraria o da imparentare a «maestri» di qualsiasi genere, anche se lo si potrebbe accostare a un César Aira meno provocatorio e sperimentatore, ma più lieve e più attento alla scrittura, capace di rendere il sapore di un’oralità svagata quanto poetica e di trasmetterci, come in questo caso, la visione di un’Argentina inventata, sognata, quasi mitica, divenuta una volta per tutte luogo dell’immaginazione. Uno scrittore originale, insomma, cosa che lo rende perlomeno insolito nel panorama italiano e ne raccomanda la lettura.

Quest’ultimo romanzo, forse il migliore e il più maturo tra i sei pubblicati finora, ha un ritmo quasi ipnotico, simile allo sciabordare dell’acqua contro i fianchi di una barca, e ruota intorno all’improvvisa inondazione di un paesucolo abituato a convivere con un fiume familiare e relativamente quieto, che si abbandona di rado alla furia, ma che stavolta costringe alla fuga gli abitanti, lasciando emergere solo i piani alti, i tetti, le cime degli alberi, e aprendo le case alle incursioni degli yacaré, ossia i caimani neri, gli stessi che Horacio Quiroga, nei suoi Cuentos della Selva destinati ai bambini, trasformò in esercito pacifista deciso a contrastare le navi da guerra.

A Río Sauce restano soltanto i morti del cimitero (ora sepolti due volte, sotto vari metri di terra e altrettanti di acqua) e Ilario Morales, vecchio cocciuto e solitario, asserragliato in soffitta mentre al pianterreno scorrazzano gli yacaré e l’umidità mangia lentamente le mura.
Venuto da lontano, come quasi tutti i vecchi del paese (è nato in Spagna, nei Paesi Baschi, molto e molto tempo prima), Morales non è un eroe, né un pazzo, né un naufrago prigioniero: percorre serenamente in barca le strade del paese per impararle di nuovo, approda ogni giorno all’asciutto per consumare la solita scodella di fagioli all’osteria del Turco Hasan, arriva a nutrire con compassionevole freddezza lo yacaré che si è insediato in una stanza al primo piano, fa lunghe soste sulle tombe invisibili della moglie e della figlioletta, e si avventura in un paese vicino, dove un allegro cane lo sceglie come padrone.

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Adrián Bravi

A spezzare la sua solitudine ci sono i molti tentativi di convincerlo a lasciare l’eremo acquatico, compiuti dal figlio e dai paesani, ma anche le presenze di animali bizzarri, di gocciolanti e spauriti turisti giapponesi, di saccheggiatori dalla comica goffaggine, e infine l’eco di voci incontrollate su misteriosissimi cinesi che vorrebbero comprare il paese sommerso, in vista di speculazioni edilizie ancor più misteriose.

E poi l’acqua, che sembra essere lì non per cancellare ogni cosa, ma per rivelarne la vera natura, si ritira, e con essa se ne va anche Morales, lasciando un Río Sauce non più suo, rinato a una vita che il vecchio sente improvvisamente falsa ed estranea; e il suo ultimo rifugio sarà lontano dall’acqua, ma solo per ricordarla meglio, come se il paese autentico fosse quello sovrastato da un cielo liquido, dove le sagome degli yacaré sfrecciano ovunque. Si capisce fino in fondo, allora, quanto sia appropriata l’epigrafe scelta da Bravi («Ma il fiume non era un dio o non era, in realtà, il tempo?»), un verso del più grande poeta entrerriano, quel Juan L. Ortiz a proposito del quale Borges – che lo disprezzava ingiustamente – e Juan José Saer – che invece lo considerava il proprio maestro- si trovarono a battibeccare nel corso di un comune viaggio in treno.

Il cuore de L’inondazione è infatti il tempo, quella porzione di tempo immobile e sospeso che a volte ci viene concessa (o che alcuni riescono ostinatamente a concedersi) per capire quanto sia giusto e inevitabile, come dice Morales, «disfarsi di tutto», imparare a dire addio.

 

Scheda biografica

Adrián N. Bravi (San Fernando, Buenos Aires, 1963), vive a Recanati e lavora come bibliotecario presso l’università di Macerata. Nel 2004 comincia a scrivere in italiano: dopo l’esordio con Restituiscimi il cappotto (Fernandel, 2004), ha pubblicato con nottetempo La pelusa (2007), Sud 1982 (2008), Il riporto (2011), L’albero e la vacca (nottetempo/Feltrinelli 2013) con il quale è stata inaugurata la collana indies di Feltrinelli e ha vinto il Premio Bergamo 2014. Nel 2015 l’editoriale argentina Sofia Cartonera ha pubblicato una breve raccolta dei suoi racconti, Después de la línea del Ecuador. Nel 2012, il cortometraggio di Andrea Papini, ispirato al romanzo Il riporto, ha vinto la prima edizione del Premio Bookciak 2012. I suoi libri sono stati tradotti in francese, inglese e spagnolo.