Ho aperto il libro di Giorgio Napolitano (Europa, politica e passione, Feltrinelli, pp. 94, euro 10) con la curiosità di vedere come un rappresentante autorevole del main stream Ue faccia i conti con la situazione drammatica in cui sprofondiamo ogni giorno di più. Confesso la mia sorpresa dinanzi alla sua scelta di descrivere senza mezzi termini lo stato comatoso in cui versa il processo di integrazione: caduta verticale del consenso popolare, blocco dello sviluppo economico e sociale, ripresa dei nazionalismi, imbarbarimento delle leadership. Sull’immigrazione una condanna netta della politica del filo spinato ovunque in atto (particolarmente forte la denuncia del caso ungherese) e appoggio incondizionato ad una prospettiva di accoglienza. Più in generale insistente e ripetuta affermazione dell’obbiettivo del federalismo politico come l’unico in grado di mettere in salvezza il progetto europeo. Non a caso Altiero Spinelli ha, nel Pantheon dei padri fondatori insistentemente riproposto nel libro, un ruolo di assoluto rilievo.

La masochistica distorsione

Contemporaneamente, piena adesione alla politica di austerità in atto, e rigetto fermo di qualsiasi «catastrofismo» sempre disposto a vagheggiare un’«altra» Europa. È «masochistica distorsione» non accorgersi che il problema è quello della crisi globale. Ma i dati parlano chiaro. Tra il 2009 e il 2014 l’economia dell’Eurozona si contrae dell’1% e non recupera i livelli del 2008. Nello stesso periodo, senza guardare alla Cina (+52,9), gli Usa crescono del 7,8%, il Regno Unito del 4,5%, il Giappone del 2%. Non solo, continua Napolitano, proprio durante la crisi «le difficoltà hanno spinto a innovazioni significative, sul piano di procedure e di bilancio concertate». Ma la proliferazione di accordi intergovernativi registratasi in questi anni di crisi ai danni del potere della Commissione (si pensi emblematicamente al Fiscal Compact del giugno 2012), persegue una direzione di marcia esattamente opposta a quella del federalismo. Per finire, piena e convinta accettazione della primazia tedesca: «Può portare fuori strada assumere atteggiamenti vittimistici e rivendicativi in chiave nazionale, in antitesi a chi rappresenta lo Stato membro di maggior peso nelle istituzioni comuni». Per legittimare questa opzione si evoca addirittura Thomas Mann, che sono sicuro non amerebbe essere associato al trio Merkel-Scheuble-Weidmann.

Ma di chi allora la responsabilità dello sfascio? La risposta è netta: della politica. Mentre il processo di integrazione economica avanza lungo i binari tracciati dai mercati e dalla austerità «la politica è rimasta nazionale, nel senso che è stata condizionata in modo determinante in ogni paese membro dell’Unione, da una visione angusta e meschina dell’interesse nazionale, e da pulsioni demagogiche sfociate nell’antipolitica e nell’antieuropeismo». Di qui l’esortazione, l’auspicio, l’ottativo, come tratti dominanti di questa scrittura, che invoca in continuazione l’Europa senza concedersi mai una pausa di approfondimento e di riflessione analitica.
Da dove nasce questa paradossale scissione tra economia e politica che fa dell’europeismo di Napolitano una retorica disarmata e contraddittoria? In primo luogo dalla riproposizione in toto dalla vecchia vulgata che vede il processo di integrazione come opera di solitari e lungimiranti politici (i soliti Monnet, De Gasperi, Schuman, e compagnia), di cui poi si perde non si sa come il seme. Ma il grande problema storico della mancata formazione di un politico sovranazionale, su cui la crisi attuale ci obbliga a riflettere, evoca scenari di maggiore densità.

Una miope élite

La natura delle cose, dice la quattordicesima «degnita» di Vico, la si coglie nella «guisa del loro nascimento». È la tragedia planetaria della seconda guerra mondiale (i 55 milioni di croci evocati da Piero Calamandrei, federalista irriducibile) che segna una grande cesura di massa nella storia del continente, determinando un potenziale che forse non può essere raccolto. Quella catastrofe, infatti, è anche una sconfitta dello stato nazione europeo. Ciascun vinto tratta con il vincitore le condizioni della sua rinascita. Il processo di integrazione è fin dall’inizio subordinato ad una assai più vasta rete transnazionale a direzione Usa che detiene le chiavi del potere militare (la Nato) e del potere economico (il dollaro come moneta di riserva). Quella ristretta élite europeista chiusa nella morsa della guerra fredda che la depriva di ogni influenza geopolitica non potrà mai varcare la soglia delle «solidarietà di fatto» enunciate dalla Dichiarazione del 1950. Oggi sappiamo bene che il politico, a differenza da quanto sostenuto dalla teoria funzionalista dei piccoli passi che ispira tutta la successiva costruzione europea, non nasce mai, e non può nascere, come superfetazione dell’economico.
Il crollo dell’Urss, unitamente alla fine di Bretton Woods, riapre indubbiamente i giochi. Ma la strada del politico sovranazionale è ora tassativamente sbarrata dalla scelta di rimettere ai mercati un potere illimitato di comando nel governo dell’economia. Napolitano non dice che il federalismo di Altiero Spinelli è nuovamente stroncato negli anni Ottanta dalla politica di Jacques Delors che con l’Atto unico mette definitivamente in costituzione «le quattro libertà». La scelta immediatamente successiva della moneta senza stato è il frutto di una cultura subalterna che torna a relegare nel dimenticatoio la natura strutturalmente ciclica dello sviluppo capitalistico e si immagina un’Europa come somma di economie in concorrenza tra loro nel rispetto di regole che avvantaggiano solo il più forte. Quando nel vivo della crisi la questione della dimensione federale si ripropone ancora una volta nella forma di un inizio di fiscalità comune, Angela Merkel è tassativa: «Fintanto che ci sarò io non ci saranno eurobond».
E allora: come si può essere per un potere federale e difendere nello stesso tempo una politica che respinge in via di principio qualsiasi forma di controllo della libertà dei mercati? Napolitano esce dalle pagine di questo libro come un’incarnazione vivente di quella che Gramsci chiama «coscienza contraddittoria», costruita su una convivenza di posizioni tra loro incongrue e contraddittorie che rende chimerica qualsiasi pretesa di governo dei processi in atto. Da un lato tanti buoni pensieri sull’Europa e la retorica democratica che è stata propria della sinistra italiana. Dall’altro pieno appoggio ad una agenda pesantemente conservatrice che si muove in direzione simmetricamente opposta a quei propositi.

L’austerità anticipata

Ad una analisi fondata sull’ossimoro Napolitano è, in realtà, avvezzo fin dalla fine degli anni Settanta, quando convinse sé e il partito di cui era dirigente che la soluzione riformista della crisi allora in atto doveva prendere le mosse dal contenimento dei salari e dal rilancio dei profitti suggerito dalla Confindustria di Guido Carli. Si trattava di una geniale anticipazione di quella che sarà negli anni Novanta la linea di tutta la sinistra europea, Gerhard Schroeder in testa. Il problema, tuttavia, va ben oltre la biografia del presidente emerito e investe il lungo e non ancora concluso processo di svuotamento della sinistra italiana (ma la scala è appunto continentale), sempre più dilacerata tra il suo credo storico, con il quale continua a legittimarsi nel paese, anche se in misura sempre minore, e scelte di governo volta a volta totalmente difformi. Forse che proprio la cronaca di questi giorni non sta a dimostrare come anche lo statista di Rignano sull’Arno incoronato da Napolitano sia consapevole di poter sopravvivere politicamente, ad onta di una linea di governo nettamente antipopolare, solo a patto di avvalersi del consenso e della collaborazione dei quadri e degli insediamenti territoriali del vecchio Pci?