Se qualcuno dovesse pigliarsi vaghezza di chiedere all’autore, per puro capriccio, quali tra questi 107 incontri con la prosa e la poesia (Edizioni del Verri, pp. 168, euro 13,00) potrebbero essere riconducibili a un del tutto ipotetico principio di realtà ovvero o anche a un personaggio che sia o che sia stato nel mondo in carne e ossa, egli ragionevolmente risponderebbe senza esitare: «Che domanda! È semplice: con Beethoven, Ovidio, Garcìa Lorca e Salvador Dalì». E poi, dopo una brevissima pausa e con la medesima determinazione, aggiungerebbe: «E con la Donna Barbuta». Di sicuro Tomaso Kemeny (Budapest, classe 1938) ometterebbe di ricordare che nel suo libro c’è un incontro con se stesso o con la Realtà, la quale ha qui una grana schiettamente surrealista, onirica, quasi di giovanile, sorgivo empito novecentesco, così come lo abbiamo conosciuto e amato nelle arti, nel cinema e nella stessa letteratura, testimonianza viva ed emozionante di un’epoca in cui la pratica del conflitto pareva necessaria alla creatività. Kemeny – al quale, come altrove mi pare di aver ricordato, capitò di incontrare sul lungomare di una città della Costa Azzurra, egli poco più che adolescente e l’altro già vecchio e coronato di gloria, il grande Breton: un simbolico battesimo del fuoco, si potrebbe dire il segnavia di un destino militante – è stato e continua a essere il frutto più prezioso di quella tradizione modernista che lui, nel corso degli anni, nel corpo della scrittura, ha saputo variare e modulare con la destrezza di un maestro che insieme è riuscito sempre a rimanere un fraterno compagno di strada (ma lui, certo, preferirebbe di lotta, di resistenza, tanto cieca come l’amore è la sua fede nella poesia e nella «gioventù eterna / del mondo»: che sono poi, per questo poeta, una sola cosa, un solo desiderio).
La Realtà, si diceva. Ma la Realtà, dopotutto, vi si presenta, qui, sogno essa stessa, a scompigliare il sogno. Una notte entrano in casa dei soldati, dei predatori, e mentre costoro (così sta scritto) «portano via ogni mio avere, mi accorgo di giacere sul pavimento del mio studio. Tutto pare normale tranne che la mia testa si trova staccata a fianco del mio corpo, per poi rotolare vicino ai miei piedi. La Realtà giunge nuda e cruda, e con un brivido,poco prima dell’alba. È la Signora Tohil a chinarsi su di me, e a rimettere la mia testa al suo posto». Sembra chiaro: ci troviamo dinanzi a una scena surrealista tra le più tipiche, a una sequenza alla maniera delle primissime pellicole del Grande Spagnolo e insomma a una ammissione di correità a quel movimento. C’è, dolorosamente percussivo, il fantasma degli orrori e dei terrori del secolo scorso che il poeta ha ben conosciuto, e ci sono il sogno, la piegatura grottesca e a volte comica addirittura, la visione netta di uno smembramento del corpo che si accompagna a quello, non meno lacerante, dell’io. Ma poi, e al contempo, c’è il desiderio dell’alba, il bisogno struggente della ricomposizione, dell’avvento di una solarità che ricompatti il soggetto e la comunità dopo «il sonno delle nostre generazioni».
Sotto tale aspetto parlavo prima di militanza e anzi direi che in nessun altro poeta più che in Kemeny si coglie questo nodo complesso tanto simile a una nobile, produttiva contraddizione: la presa d’atto, da un lato, della condizione ineluttabile e avventurosa di una postrema e stremata modernità e, dall’altro, la nostalgia dell’unità perduta. Si potrebbe riassumere in una formula (forse grossolana alla pari di ogni formula) che Kemeny non può non oscillare (o, anzi meglio, è costretto a farlo) tra Bellezza e Orrore – dove l’Orrore viene indicato nel culto scellerato della vanità, dell’esibizionismo, dell’egoismo sociale e della vile rassegnazione di massa all’empietà (ma si tratta beninteso, per lui, di empietà contro la poesia), mentre la Bellezza (in specie per l’insigne studioso di Dylan Thomas, di Pound e di Joyce) si mostra per frantumi, macerata e ferita.
E vale inoltre la pena di fermarsi, tra questi 107 incontri con la prosa e la poesia, su quello con la Verità, laddove essa, anche qui, «si manifesta come nostalgia di un futuro diverso, in grado di coprire il mondo intero». Ma la Verità, quelli che la rispettano, «la incontrano in forma di Menzogna o di Illusione». E, lasciando la prosa per lo specchio dei versi, ecco che «il Vero si vela così / in turbini e vortici / lontano sia da chi vive / di frode e saccheggio / sia dall’onesto e persino / dal santo». Da tali e tante tensioni è impastato e sostentato questo libro scritto da un poeta ostinatamente e nonostante (e contro) tutto felice. Né si può affermare, senza cadere in un vieto pleonasmo, che l’opera ora data alle stampe da Tomaso Kemeny ci abbia sorpreso.