Si passa di strage in strage, non si riesce più a seguirle tutte. Impossibile recarsi ovunque. L’elenco di ieri è fitto: il mercato di Shujayea, la scuola Unwra di Jabaliya, Zaytun, Khan Yunis e tanti altri nomi che fanno più di 100 morti in una sola giornata e altre centinaia di feriti che stanno portando al collasso gli ospedali di Gaza. Da quando è cominciata «Margine Protettivo» sono stati uccisi circa 1.400 palestinesi (almeno il 70% sono civili tra i quali 243 bambini), oltre 7mila sono i feriti. Una striscia di sangue infinita che contribuiscono ad allungare anche le «finestre umanitarie». Israele ieri ha proclamato unilateralmente quattro ore di tregua, dalle 15 alle 19, nelle «zone dove non si combatte». Si è rivelata una trappola mortale per tanti palestinesi di Shujayea, popoloso quartiere di Gaza city raso al suolo in parte dai bombardamenti israeliani nelle ultime due settimane. Persone che hanno approfittato della «pausa» nei cannoneggiamenti per rifornirsi o per vendere generi di prima necessità nel mercato rionale. Una bomba sganciata da un F-16 ha ucciso 17 persone, tra i quali un giornalista, Rami Rayan, ennesimo operatore dell’informazione palestinese che paga con la vita il dovere di informare. 200 i feriti.

Nell’ospedale Shifa si sono vissute le stesse scene viste tante volte negli ultimi 22 giorni: corpi insaguinati, cadaveri irriconoscibili, padri che corrono verso il pronto soccorso con i figli feriti in braccio. Urla, pianti, sguardi fissi, medici esausti che resistono con la sola spinta dell’adrenalina. Sono più di tre settimane che vediamo tutto questo e non bisogna illudersi. L’accordo di tregua è solo un miraggio. Il gabinetto di sicurezza israeliano ieri sera si è chiuso dopo cinque ore con la decisione di lasciare ancora carta bianca alle forze armate. Dall’altra parte Hamas, o meglio la sua ala militare, crede di aver vinto la guerra perchè ha ucciso 57 soldati israeliani – gli ultimi tre ieri -, perchè lancia razzi verso Israele e così alza la posta, ponendo come condizione per accettare un cessate il fuoco permanente, l’attuazione di richieste che Israele e l’Egitto non accetteranno mai. I negoziati al Cairo con tutte le fazioni palestinesi non sono mai realmente cominciati e in ogni caso rischiano di produrre intese inapplicabili per la rigidità delle parti in conflitto. Il mondo resta alla finestra, si guarda bene dal fermare la macchina bellica israeliana e pronuncia vecchi slogan e frasi di circostanza che non cambiano nulla. Ieri sera si è riunito d’emergenza il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, un’altra seduta senza prospettive di soluzione.

Shujayea è parzialmente abitato, soprattutto nella parte più occidentale, abbastanza lontana dalla lunga fascia di macerie che segna la linea del «fronte». Molte famiglie hanno preferito ritornarci pur di non vivere ammassati in scuole ed edifici abbandonati come gli oltre 200mila sfollati.

Proprio ieri John Ging, il direttore operativo dell’ufficio di coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite, ha comunicato che rispetto all’offensiva israeliana del 2012, il numero degli sfollati nelle scuole dell’Onu è quattro volte superiore. Gaza è davvero unica tra le zone di conflitto nel mondo, poiché altrove i civili hanno almeno la possibilità di attraversare la frontiera e mettersi in salvo. Per i palestinesi di questo fazzoletto di terra invece non ci sono vie di fuga. I “fratelli egiziani” tengono rigidamente chiuso il valico di Rafah per impedire ai palestinesi di entrare nel Sinai.

Ogni punto di Gaza è ormai zona di guerra. Lo hanno capito i sopravvissuti all’attacco aereo di ieri pomeriggio nel mercato di Shujayea, gli sfollati che il 24 luglio erano nella scuola dell’Unrwa a Beit Hanun e quelli che ieri all’alba si trovavano in un altro edificio scolastico delle Nazioni Unite a Jabaliya.
Nulla può offrire protezione, nessun palestinese o straniero può pensare di sentirsi al sicuro quando ormai le bombe e le cannonate cadono ovunque. Anche «per errore» e in ogni caso nelle zone colpite, spiega ogni volta il portavoce militare israeliano, c’erano sempre «terroristi» che lanciavano razzi o sparavano contro i soldati.

Nella scuola media per ragazze centrata da cannonate ieri all’alba, nessuno degli sfollati ricorda di spari di miliziani di Hamas e di altre organizzazioni armate contro le postazioni israeliane. «Ad un certo punto abbiamo sentito che le esplosioni si facevano più vicine», ci raccontava ieri mattina Kamal Abu Odeh, di Beit Hanun, uno degli scampati all’attacco alla scuola, «quindi abbiamo deciso di spostarci in un’altra aula costruita con il cemento armato, a differenza di quella dove ci trovavamo. Sono andato subito con tutta la mia famiglia.

Ad un certo punto un colpo di cannone è caduto sui gabinetti della scuola e poco dopo un altro ha centrato in pieno l’aula che avevamo appena abbandonato. Dentro c’erano ancora decine di persone. Ho visto gente fatta a pezzi». Almeno 20 sfollati sono rimasti uccisi, altre decine feriti. Vittime che si aggiungono alle cifre di una carneficina infinita. «A volte si rimane senza parole. Tutte le informazioni mostrano che è stata l’artiglieria israeliana. Abbiamo detto diverse volte a Israele che quella era una nostra scuola», commenta un alto funzionario dell’Onu. E non manca l’inutile e ripetitiva condanna degli Stati Uniti del bombardamento che «ha ucciso e ferito dei palestinesi innocenti, tra cui dei bambini, e colpito alcuni dipendenti delle Nazioni Unite». Washington può dire basta a Israele e non lo fa.

All’ospedale «Kamal Adwan» di Jabaliya, dove ci siamo recati per tentare di parlare con alcune persone ferite nella scuola, abbiamo trovato un girone dell’inferno. In quella zona le stragi sono continue, medici ed infermieri non hanno un attimo di sosta. Arrivano in continuazione ambulanze, con a bordo persone squartate dalle esplosioni, corpi bruciati, carbonizzati, bambini che urlano per le ferite. Tutto nel caos causato dalla stanchezza e dall’elevato numero delle vittime. Così è ovunque nelle zone più vicine alle aree delle operazioni israeliane.

Nessuno, lo ripetiamo, può sentirsi sicuro. La salvezza? L’Esercito israeliano offre ai palestinesi l’unica via d’uscita: diventare collaborazionisti. Dopo il volantino numero 1 sganciato dagli aerei, che qualche giorno fa riportava nomi e cognomi dei miliziani veri e presunti di Hamas e Jihad che saranno eliminati molto presto, il volantino numero 2 ieri riportava un indirizzo elettronico, helpGaza(at)gmail.com, e un numero di telefono, 03 3769999, dove denunciare i membri di Hamas e fornire informazioni sui gruppi armati.

Neppure il collaborazionismo può salvare da bombe che ormai cadono ovunque, sui mercati e sulle scuole.