Non ci sono stati colpi di scena. Al Senato la legge sul finanziamento degli enti locali, per approvare la quale era obbligatoria la maggioranza assoluta di 161 voti, è passata con larghissimo margine: 184 sì. Stavolta nemmeno si può dire che la maggioranza ha avuto bisogno del sostegno alato dei verdiniani. Anche senza i senatori di Ala la legge avrebbe superato la prova con 167 voti. L’area centrista, sospettata di meditare sgambetti, ha invece offerto prova di massima fedeltà: su 31 senatori, 29 erano presenti e debitamente votanti. «Se questo è un agguato…», commenta soddisfatto il capogruppo Schifani, la cui situazione è particolarmente delicata trattandosi del supposto capo dei frondisti vogliosissimi di tornarsene all’ovile azzurro.

Solo fantasie e calunnie quindi? Ovviamente no. La tentazione dell’agguato c’è stata davvero, e quella del rovesciamento d’alleanze ancora c’è. I malumori si sono toccati con mano di nuovo ieri sera nell’assemblea dei senatori con il leader Angelino Alfano. I colleghi della Camera non erano invitati: una decisione apparentemente inspiegabile dal momento che oggetto dell’assemblea era il rapporto con il governo, faccenda di pertinenza tanto dei deputati quanto dei senatori, come fa notare indispettito Cicchitto: «Serve una riunione congiunta». Ma i frondisti sono numerosi al Senato, poco meno di una decina, molto di meno alla Camera. Di qui la scelta di limitare ai senatori lo sfogatoio, pardon l’assemblea.

Solo di sfogo però può trattarsi al momento. A gelare le fantasie d’imboscata è stato lo stesso Silvio Berlusconi, notificando a Schifani che in questo momento l’idea di rischiare una crisi gli pare una pazzia. Berlusconi sa di non essere pronto ad affrontare una crisi al buio e ancor meno l’ipotesi terrificante di elezioni anticipate. Per lui, al momento, la cosa migliore che i frondisti dell’Ncd possono fare è restarsene dove sono. Magari fiaccando ogni tanto il governo, ma solo quando ciò non comporti rischi estremi.

La verità è che l’idea di veder tornare a casa un mazzetto di transfughi in disperata ricerca di collocazione non alletta affatto il partito azzurro. Di voti ne portano pochi, rischiano di farne perdere altrettanti, se non di più e rappresenterebbero un ulteriore ostacolo nella già complicata vicenda dei rapporti con la destra estrema della Lega e di FdI.
Quella parte del mai nato partito alfaniano che preferirebbe trovare riparo in casa Renzi, in compenso, sta messa anche peggio. Le porte sono aperte per la ministra Beatrice Lorenzin, che è già del Pd in tutto tranne che nelle dichiarazioni pubbliche e nelle tessere. È sufficientemente anonima per non fare danno. Ma l’ingresso libero si ferma lì, perché gli altri nomi, quelli legati agli impresentabili Raffaele Lombardo o Nicola Cosentino, sarebbero solo un pietrone al collo. E medesimo discorso vale per il capo, Angelino, tanto più dopo i guai famigliari. La lezione delle comunali è stata severa: ora Matteo Renzi sa con certezza che giocare con i centristi di Alfano, e a maggior ragione di Verdini, vuol dire giocare col fuoco.

Più che a un dissenso politico compiuto, la fibrillazione e il disagio che incombevano sull’assemblea di ieri e che da settimane tengono in scacco tutta l’area centrista sono un sintomo di pura disperazione e di sbandamento totale. I cosiddetti centristi sanno di non avere spazio politico se restano attestati dove già sono, ma sentieri alternativi non riescono a trovarne. Quindi sono pronti ad aspettare sbuffando e tremando che passi agosto, nell’attesa che a settembre «succeda qualcosa». «Il governo – confessa uno dei leader – in realtà è debolissimo e se a settembre dovessero arrivare nuovi colpi giudiziari può succedere di tutto». La speranza, sempre più remota, in realtà, è che quel «tutto» si traduca in una modifica dell’Italicum. In fondo la posta in gioco è tutta qui.

È per ottenere quella modifica, il passaggio dal premio di lista, che i centristi scalpitano e ricattano, sino a proporre, come fa Roberto Formigoni, un assurdo scambio: «Noi passiamo all’appoggio esterno senza far cadere il governo se il Pd modifica la legge elettorale». Parole in libertà. Per l’autunno Renzi teme molte cose. La rivolta dei centristi ridotti all’impotenza non è fra queste.