Non tragga in inganno la leggerezza aggettivante l’economia dell’immateriale. Raccontata infatti come leggera da chi crede alla ruota della fortunaè è semmai una economia pesante. In questa transizione l’economia si fa leggera rispetto a un prima fordista, ma tratta le merci più pesanti e più leggere che ci siano: il denaro, il corpo e il desiderio.

La transizione socio-economica è fatta di onde che si compenetrano, dove «residui» del vecchio rivivono nel «nuovo», e l’apparentemente «morto» rimane avvinghiato al «vivo» condizionandone i movimenti. Ciò implica la necessità costante di provincializzare (territorializzare) il discorso. E porsi il problema di individuare le vie italiane all’economia della conoscenza globale in rete, necessariamente decentrate rispetto al modello mainstream, che vive nei rapporti dei consulenti globali come McKinsey e Boston Consulting, o nei best seller sulle nuove «geografie del lavoro».
Territorializzare significa mettere a punto i nostri modelli, al fine di preservarne il valore euristico e la capacità di orientare in modo efficace l’azione. Implica cioè trovare una sintesi «alta» – non un compromesso o un punto intermedio – tra ciò che resta del capitalismo di territorio (del primo ciclo postfordista) e l’economia della conoscenza globale in rete, a prevalente base urbana. O meglio, ricercare una via che, partendo dalla deriva del capitalismo italiano di territorio, si saldi in un nuovo ibrido socioeconomico con l’economia emergente della conoscenza in rete.

Uno sviluppo indigeno

È in questa prospettiva che può essere riletto il confronto (ma anche in fondo il conflitto) tra le due vie dello sviluppo industriale che negli anni Ottanta e Novanta hanno diviso economisti, sociologi, geografi. Ed è tenendo sullo sfondo questa dicotomia che occorre reinterpretare alcune immagini dello sviluppo che hanno segnato il dibattito degli ultimi quindici anni, incluse anche alcune meteore mediatiche. Di questi processi abbiamo sempre proposto immagini che provavano a decentrare i diversi paradigmi che di volta in volta si candidavano a raccogliere il testimone di levatrice del capitalismo futuro.

La nostra «classe creativa» o la «nostra» new economy, a cavallo del passaggio di secolo, non vivevano di intreccio con i venture capitalist e non abitava i centri «gentrificati» di metropoli globalmente interconnesse. Erano semmai intreccio con la terziarizzazione della manifattura, scommessa di una nuova organizzazione spaziale di città-regioni e piattaforme territoriali. La «nostra» green economy, assai più che di investimenti hard nelle energie rinnovabili, ha il volto delle reti territoriali soft, dei «ritornanti» che promuovono nuova agricoltura facendo tesoro della rivoluzione slow, dei parchi come laboratori di pratiche sostenibili.

La «nostra» smart city l’abbiamo chiamata smart land, per segnare la distanza da un paradigma di efficienza guidato dall’infrastrutturazione top down della vita quotidiana, perseguita attraverso la digitalizzazione «hard» dei territori; la nostra smart land è prima di tutto innovazione sociale, comunità e territori che si appropriano delle soluzioni tecnologiche partendo dai loro bisogni. E la «nostra» share economy non vive di fondi comuni d’investimento, Groupon e Uber (anche se tutto ciò è sicuramente share economy); non è fatta dell’aggregazione di molecole di capitale, ma di progetti di vita che entrano in risonanza rilanciando una nuova mutualità, nel progettare, produrre, realizzare, distribuire, acquistare, prendersi cura degli altri e dei luoghi.

La centralità del territorio

Tutto ciò non può restare relegato a buona pratica, di grande rilievo etico ma sostanzialmente marginale. Non sono mai stato sostenitore di una più o meno naif decrescita, di esperimenti utopici basati sul primato del valore d’uso o del localismo programmatico delle tipicità. Ho sempre sostenuto che tutto ciò dovesse integrare e fondersi con il nostro capitalismo di territorio.

Parlo cioè dei soggetti della metamorfosi del fare impresa, degli artigiani digitali delle stampanti 3D, del nuovo made in Italy che fa resilienza, dei creativi messi al lavoro nel nuovo ciclo, dei ritornanti con imprese innovative che rianimano parchi e territori un tempo ai margini dello sviluppo, sino all’emergere di cooperative di comunità e imprese sociali che fanno welfare community, deboli tracce da cui partire per la coesione sociale che verrà. Sono le aziende che guardano alla società, che investono nel rapporto con le comunità (dei lavoratori, del territorio, di filiera ecc.), imprese low profit che antepongono la logica degli investimenti di medio e lungo periodo alla remunerazione a breve degli azionisti. Ma anche le for profit che producono beni e servizi alla persona, start up a vocazione sociale, che tengono insieme innovazione e cura, imprese della sharing economy, che utilizzano la rete come dispositivo di aggregazione e condivisione della domanda, sino agli ibridi organizzativi che mettono assieme una storia e finalità no profit con gestione for profit, ai visionari che promuovono e vendono significati affluenti, ai facilitatori che intervengono sulle condizioni che strutturano i mercati, alle fabbriche della condivisione, i fab lab che nascono dal basso nei contesti urbani figli della logica reticolare mutuata da internet.

Questa nuova economia leggera è in stretta relazione con l’affermarsi simultaneo di differenti processi tecnologici e sociali carichi di suggestioni: possono cioè essere smart, social e green. Che hanno come sottostante il mutamento qualitativo e di significato dei consumi, l’alta scolarizzazione di massa, l’assunzione della sostenibilità ecologica e sociale come criterio di valutazione sempre meno emendabile, la crescente insofferenza verso il dumping delle dimensioni comuni del vivere, dell’abitare, del produrre.

Intorno alle pratiche richiamate si coagulano comportamenti, emergono bisogni e tracce di domanda politica, si esprimono valori e visioni del mercato, della società e delle istituzioni che occorre decifrare, analizzare e accompagnare. Questo quinto stato ha certamente nella città il suo spazio emblematico, così come il capitalismo molecolare lo aveva nell’ex contado diviso tra «fabbriche verdi» (la moderna impresa agricola) e stabilimenti a cielo aperto (la geografia congestionata di capannoni della Terza Italia e delle pedemontane settentrionali).

Framework metropolitani

La città è, per i protagonisti dell’economia leggera, un grande framework produttivo, che i loro progetti contribuiscono a rimodellare; un cambiamento che non si vede guardando in alto, ai grattacieli, ma facendo i flâneur, osservando la città in orizzontale.
Camminando lungo le strade, insieme ai negozi vuoti per la crisi, s’incontrano i luoghi di ibridazione in cui si mette insieme tutto, il coworking e il ristorante, il mercato della terra e il posto dove incontrarsi. Si è passati dai centri sociali, che erano luoghi di resistenza, a questi luoghi di resilienza, di riuso creativo del costruito, di «produzione dello spazio» di segno diverso dai grandi progetti elaborati dall’insostenibile alleanza tra finanza e real estate.

Questa galassia, tuttavia, non ha ancora un racconto «politico», se non nei rapporti di minoranza che fanno capolino negli interstizi del discorso pubblico. È destinataria semmai di retoriche dall’alto. Per non girarci intorno, il discorso di Matteo Renzi si nutre ad esempio di una retorica delle soggettività rottamanti che ha troppi punti di contatto con la prospettiva neoliberale di destrutturazione dei corpi intermedi. Come se la galassia delle economia leggere non richiedesse (anche) società di mezzo, nuove configurazioni di welfare, risorse politiche. Al contrario, penso che in tutti questi luoghi nuovi occorre «mettersi in mezzo», saldando ciò che resta della società di mezzo del Novecento in cambiamento con ciò che non è ancora. Solo così, contaminando le tracce del nuovo con i soggetti della rappresentanza, avrà senso tenere assieme coesione e competizione. Non si produrrà alcuna uscita in alto dalla crisi senza tenere insieme istanza di rinnovamento economico e produzione di società.

Un buon fare comune

È qui peraltro che si definisce l’agenda di una «buona politica», in questa capacità di «mettersi in mezzo». Il dividere con, il fare in comune assai più che l’astratto mito del bene comune, sembrano la cifra delle pratiche di economia leggera, i cui protagonisti si definiscono assai più intorno ai progetti che intorno a visioni olistiche del mondo. Per questo sembrano non esprimere domande.
Eppure anche qui serve verticalità, capacità di strutturare forme nuove di rappresentazione collettiva, immaginare e sperimentare istituzioni. Bottom up non significa partire da sé per restare al punto di partenza, lasciando che a determinare i processi rimanga l’autonomia del politico nella sua versione deteriore (sebbene la politica abbia sempre, necessariamente, una sua «autonomia»). Il vero dramma della crisi, nel nostro paese (ma anche in Europa) non consiste tanto o perlomeno non solo nella distruzione di capitale e nella svalutazione del lavoro, ma nell’incapa- cità di ricercare intenzionalmente nuovi equilibri tra società e politica, tra mercato e soggetti sociali, compito che in questi anni è stato affidato alle istituzioni finanziarie europee e perseguito attraverso mere politiche di aggiustamento dei conti.

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MATERIALI. Le «comunità concrete», una nuova collana dedicata alla lunga transizione italiana

Il brano presentato in queste pagine è tratto dal volume, da oggi in libreria, «La società circolare» scritto da Aldo Bonomi, Federico Della Puppa e Roberto Masiero (DeriveApprodi, pp. 212, euro 18). Il libro ha l’impegnativo sottotitolo «Fordismo, capitalismo molecolare, sharing economy»: intende cioè fornire strumenti e visioni per interpretare l’Italia contemporanea. Per gli autori, dopo la lunga stagione del fordismo novecentesco imperniato sulla dialettica capitale-lavoro e quella del postfordismo basato sull’egemonia della micro e piccola impresa territorializzata, siamo entrati in una nuova fase, quella dell’economia circolare, nella quale la nostra socialità è alla base della creazione del valore economico. Il saggio inaugura «comunità concrete», una nuova collana della casa editrice DeriveApprodi. Il secondo volume sarà a firma di Carlo Formenti e sarà dedicato ai «populismi», intesi come forme politiche non del passato ma del moderno. Maurizio de Matteis nel suo «Via dalla città» scriverà invece su chi torna alla terra, optando per un margine che si fa centro. Toccherà poi al libro-inchiesta di Simone Bertolino e Salvetore Comimu sulle dinamiche contemporanee della città, da Torino sino a Bari passando per Milano e il Nord-Est.