«Primo compito di qualsiasi campagna elettorale è incorniciare la domanda a cui si vuole che rispondano gli elettori. Per Donald Trump questa elezione ha da essere un referendum sul cambiamento: siete soddisfatti di come vanno le cose in America? Per Hillary Clinton l’elezione deve essere un referendum su Trump: «siete disposti a consegnare i codici nucleari a un tipo autoritario dal grilletto facile?».
Questa estrema semplificazione della corsa per la Casa Bianca, proposta da Doyle McManus sul Los Angeles Times, è la chiave perfetta, nella sua essenzialità, per leggere quanto sta accadendo negli Stati Uniti dopo le due convention di Cleveland e di Filadelfia e quanto, prevedibilmente, accadrà nei novantacinque giorni che ci separano dal fatidico 8 novembre delle presidenziali americane.

Perché è probabile che vada così, che tutto si riduca ai due «referendum»? Perché, a ben vedere, è andata così fin dall’inizio, dacché Donald Trump ha vinto le prime elezioni primarie repubblicane, e le ha vinte proprio ponendo al centro dello scontro il tema dello status quo e del suo cambiamento, e facendone il filo conduttore della sua sfida. Proponendo se stesso come agente di questo cambiamento. Il change maker.
Di qui la trappola, forse inevitabile, in cui sono finiti incastrati i suoi avversari repubblicani, che hanno accettato il suo campo di gioco, e hanno così ridotto le primarie a un interminabile referendum su Donald Trump. E hanno trovato un’eco, che ne ha moltiplicato gli effetti, in un sistema mediatico affamato proprio di personaggi come lui, perfetto antagonista macho di una candidata come Hillary Clinton, l’inevitabile, l’indiscutibile nominée democratica e, poi, l’inevitabile, indiscutibile Madam President. Una storia, non fosse stato per Trump, scontata in partenza, che avrebbe reso noiosa anche questa competizione presidenziale.

L’ultima poi, quella tra Obama e Romney, era stata particolarmente grigia. Questa volta no, grazie alla sorpresa di Bernie Sanders, e soprattutto, appunto, alla straordinaria prestazione di un outsider catapultato nella politica dagli affari e dall’entertainment, con la massima gioia dei media, appunto, anche di quelli che, sul miliardario indecentemente disinibito, hanno riempito pagine e pagine e ore e ore di tv colme di indignazione apparentemente incredula.
Quanto hanno guadagnato da Trump, i media? Ma quanto ha avuto lui, in cambio, quanti milioni di dollari ha risparmiato in una propaganda elettorale gratuita che ne ha ingigantito la sfida? E ora, la loro creatura, questa strabiliante media creation, potrebbe davvero diventare il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti.

Un doppio referendum, dunque, ognuno dei quali, a ben vedere, interagisce con l’altro. Ed è lungo questa traccia – anche se mai esplicitata ma evidente – che si muove il saggio di Andrew W. Spannaus (Perché vince Trump), un libro, peraltro, che è un’ottima guida per familiarizzare con la politica statunitense, di cui si pensa di sapere molto e invece si sa poco, e con molti dei meccanismi e con la dinamica delle elezioni americane, non solo di quella in corso. Spannaus aiuta a capire chi è Trump, sebbene perfino il suo libro, nell’inevitabile sforzo chiarificatore di affermare che l’autore non è dalla sua parte, solo perché lo prende sul serio, non riesce ad andare fino in fondo e senza impaccio nella descrizione di un agente del «sovversivismo delle classi dirigenti» del nostro tempo qual è Donald Trump.

Ci sono dilemmi, su questo personaggio, che non possono essere sciolti, perché in realtà non vanno sciolti. «Let Trump be Trump», «Trump faccia Trump», ripeteva il suo stratega delle primarie, il losco Corey Lewandowski, poi licenziato perché troppo «trumpista» per essere sostituito dal più moderato Paul Manafort, chiamato a impostare una campagna more conventional, più convenzionale. Qualcuno si è forse accorto di un mutamento nello stile di Trump?

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Anche dopo le tante raccomandazioni, pure da parte dei familiari, a intraprendere una strada più «presidential» nello scontro finale con Hillary, Trump resta Trump, un po’ perché prigioniero di se stesso, un po’ perché davvero non sa fare altro, e molto perché funziona bene così con chi deve funzionare. Pertanto, anche dopo la fase feroce delle primarie, lui continua stupire. Stupisce, di lui, come la somma di tutti i suoi evidenti segni «fascisti» – xenofobia, misoginia, razzismo, omofobia – non sia contraddetta dalla somma di clamorose irriverenze anche scurrili nei confronti di istituzioni ed effigie patriottiche (e quindi, in un certo senso, «fasciste») come l’apparato militare, i reduci di guerra, perfino i caduti in guerra, la Nato. Perché non sono semplici contraddizioni (o, comunque – e fa lo stesso – non sono considerate tali dal grosso dell’elettorato di riferimento di Trump).
Anche leggendo il saggio di Spannaus, si coglie come siano tutte parti incredibilmente «coerenti» del suo personaggio. Non perché – lo spiega bene Spannaus – non siano tratti visibili e anche deprecabili anche per i suoi tifosi, ma perché sono considerati secondari rispetto al suo messaggio, che incrocia un senso comune diffuso, l’assillo che agita da tempo gli americani, molti americani, non solo bianchi, che sentono precipitare il loro standard di vita e che non vedono neppure in lontana prospettiva un ritorno alla prosperity.

Torna, anche questa volta, l’ormai famoso «it’s the economy stupid», che, nel 1992, fu al centro della campagna elettorale di Bill Clinton, fino a diventarne il suo slogan, le cinque parole messe in circolo dal suo stratega, il simpaticissimo pelato James Carville. Certo, allora Bill incarnava l’ottimismo, l’idea di una nuova espansione e di una crescita felice, mentre oggi l’economia americana, che pure registra segni importanti di ripresa, non sembra avere un futuro roseo, il che è considerato da molti elettori specchio ed esito del fallimento della politica, a cui solo un uomo che ha fatto fortuna negli affari – questa la narrativa di Trump – può porvi rimedio.

Ecco perché il referendum sul cambiamento tiene banco e, se anche si può obiettare facilmente che non può essere certo un miliardario spregiudicato il change maker invocato, è addirittura illogico per molti elettori – come continuano a confermare molti sondaggi – che a riparare le cose sia un esponente dell’establishment: la «secretary of the status quo», come Hillary è stata definita da Mike Pence, il numero due del ticket presidenziale repubblicano.