La guerra del sultano Erdogan a Rojava è iniziata alle 4 di mercoledì notte sotto i vessilli dell’operazione “Scudo dell’Eufrate”. Unità speciali turche sono penetrate in territorio siriano dalla città di frontiera di Karkamis, insieme a 5mila “ribelli” siriani (l’Esercito Libero, i turkmeni della Brigata al-Sultan Murat, i salafiti di Ahrar al-Sham e gruppi laici e islamisti della composita federazione Fronte del Levante, attiva ad Aleppo). In cielo, a proteggere l’invasione di Jarabulus, volavano gli F16 turchi e la coalizione a guida Usa.

Un’operazione repentina che ha permesso in poche ore all’Esercito Libero Siriano di strappare alcuni villaggi allo Stato Islamico e, nel tardo pomeriggio, al presidente di annunciare la presa di Jarabulus. Eppure l’Isis la occupava dal luglio 2013. A gennaio 2014 è stato disturbato da qualche scontro con le opposizioni, ma non si è mosso. Ha continuato a dettare legge, indisturbato.

Ora la Turchia e i “ribelli” si sono accorti di quell’occupazione e hanno sferrato l’attacco: una notte e un giorno di colpi di artiglieria e lo Stato Islamico si dà alla fuga verso sud senza combattere, a differenza di quanto fatto nelle comunità liberate dai kurdi. E se Ankara celebra le zero vittime tra le proprie fila, sono almeno 49 i civili uccisi.

Le motivazioni dell’offensiva sono così cristalline che è lo stesso Erdogan a palesarle, senza troppe remore: impedire a Rojava di realizzare quella continuità territoriale e quell’autonomia amministrativa per cui combatte da decenni.

Una minaccia inaccettabile per un paese in guerra permanente con la propria comunità kurda, legata a livello politico e ideologico a quella siriana. Rojava ha reso concreta la teoria del confederalismo democratico del leader del Pkk Ocalan. E per questo va distrutta: «La Siria è la ragione per cui siamo esposti al terrorismo di Daesh e del Pyd [il Partito kurdo di Unione Democratica]», ha detto Erdogan.

Poco dopo il suo portavoce ha precisato: l’operazione ha lo scopo di «ripulire il confine di tutti gli elementi terroristi, compresi Daesh e le Ypg», le Unità di Difesa popolari del Pyd.

Cristallina anche la tempistica: “Scudo dell’Eufrate” giunge a poche settimane dal riavvicinamento alla Russia, che elimina il problema di una reazione di Mosca (che ieri si limitava ad esprimere «preoccupazione»); a 12 giorni dalla liberazione di Manbij, città kurda 30 km a sud di Jarabulus, da parte delle Ypg che poi si sarebbero dirette a nord; a tre giorni dalla strage di Gaziantep, dove 54 persone sono state ammazzate da un kamikaze infiltrato in un matrimonio.

Uno più uno fa due: la Turchia ha sfruttato un massacro che l’Isis non ha rivendicato (né probabilmente lo farà, sollevando dubbi tra gli osservatori di un suo coinvolgimento) per dare il là ad un’offensiva già pianificata. La presenza di 5mila membri delle opposizioni siriane, subito dispiegati a Karkamis e penetrati in Siria, non si spiega altrimenti. La rapidità con cui sono arrivati pesantemente armati fa escludere un’azione improvvisata, frutto dello sdegno per Gaziantep.

La Turchia schiuma da anni rabbia per l’avanzata del Pyd. L’efficace lotta kurda allo Stato Islamico ha lasciato il mondo esterrefatto e evocato il facile mito dei guerriglieri partigiani, dimenticando la lunga storia di resistenza alle repressioni degli Stati-nazione, Turchia, Siria, Iran.

L’immagine delle donne kurde armi in pugno ha fatto crescere la simpatia occidentale verso Rojava, dando filo da torcere ad Ankara. Ed infatti Erdogan ha impiegato due anni per prendersi ciò che voleva, dopo essere passato per le forche caudine dell’esitazione di Usa e Ue: alle ripetute richieste di creare una zona cuscinetto lungo la frontiera turco-siriana gli alleati si sono sempre opposti.

Ora, però, a sostenere “Scudo dell’Eufrate” c’è anche la coalizione occidentale perché ufficialmente si sta combattendo l’Isis: le élite turche entrate in Siria, prima invasione via terra ufficiale di un paese Nato, sono coperte dalle bombe Usa. Le stesse bombe che fino a pochi giorni fa aiutavano le Ypg a Manbij.

Le ondivaghe e fluide alleanze nel campo siriano modificano di giorno in giorno le prospettive future della guerra (e della pace) mettendo insieme attori distantissimi tra loro solo per il tempo di una battaglia e poi li allontanano di nuovo. Ognuno tenta la strada dell’alleanza di comodo che poi straccia e calpesta.

Come calpestata è oggi la strenua resistenza kurda all’Isis, vittima di bassi tradimenti. Prima la Russia, ora gli Stati Uniti. I civili sanno cosa li aspetta, sono già in fuga: secondo il Consiglio Militare di Manbij sono 3mila gli sfollati da Jarabulus, terrorizzati dall’arrivo dell’Esercito Libero e della milizia salafita di Ahrar al-Sham, che per il futuro della Siria non ha certo in mente un modello di governo laico e inclusivo delle minoranze.

La misura la danno le immagini pubblicate dai “ribelli” siriani: selfie a Jarabulus facendo il gesto dei Lupi Grigi, gruppo neofascista e ultranazionalista turco, da sempre nemico acerrimo dell’indipendentismo kurdo.

Si starebbero ritirando dalla riva dell’Eufrate anche le Ypg: hanno annunciato che «su richiesta Usa» torneranno ad est del fiume. Poco prima il Pyd provava a non farsi intimorire: il co-presidente Saleh Moslem ha avvertito l’invasore turco, promettendogli di resistere, «la Turchia verrà sconfitta come Daesh».

Protesta anche Damasco che parla di violazione della sovranità siriana: «Un’aggressione», la definisce il Ministero degli Esteri siriano.

Chi plaude all’operazione turca è la Coalizione Nazionale, braccio politico dell’Esercito Libero, di cui non si aveva più notizia: mentre l’Els era soffocato sul campo dai mezzi militari dei gruppi jihadisti e salafiti, la Coalizione Nazionale perdeva terreno diplomatico e veniva inglobata dalla più ampia federazione voluta dall’Arabia Saudita (l’Alto Comitato per i Negoziati) affiancata da salafiti e islamisti.