Quando nel 1939 Sigmund Freud pubblica il suo Mosè non è un momento qualsiasi per affrontare la questione delle origini dell’ebraismo. L’autore, ormai provato dalla malattia, ha dovuto abbandonare Vienna per rifugiarsi a Londra, dove morirà nel settembre dello stesso anno. Nell’ultimo dei tre saggi che compongono l’opera scrive lapidario: «Viviamo in un tempo in cui il progresso ha stretto un patto con la barbarie». Lo scopo di quest’ultima fatica sarà tirare le fila della propria carriera di scienziato rileggendo in chiave critica (e allegorica) quelle radici ebraiche per le quali è stato costretto all’esilio. Torniamo a parlarne accogliendo con piacere la decisione dell’editore Castelvecchi di ripubblicare il saggio introduttivo alla traduzione italiana del 1977, un testo a firma di Pier Cesare Bori e rielaborato alla metà degli anni Novanta («È una storia vera?». Le tesi storiche sull’Uomo Mosé e la religione monoteistica di S. Freud, 2015).

Come mette in luce l’introduzione di Gianmaria Zamagni, che di Bori è stato allievo, quest’edizione nasce dal desiderio di omaggiare la figura del docente di storia del cristianesimo, scomparso nel 2012 e tra i primi ad aver lavorato presso la biblioteca di Freud a Londra. L’interesse dello studioso era attestare la serietà storico-religiosa di una ricostruzione che lo stesso Freud aveva riconosciuto essere fragile «come una ballerina in equilibrio sulla punta di un piede». Ripercorriamone rapidamente i passaggi. Il punto di partenza, fondato sull’etimologia, consiste nel considerare il Mosè del racconto biblico un egizio e più precisamente colui che avrebbe insegnato agli ebrei il monoteismo del faraone Akhenaton.

Freud riscontra diverse analogie fra questa religione e quella ebraica, per esempio nella pratica circoncisione, e stando alle tesi di Ernst Sellin ipotizza che Mosé sia stato assassinato e quindi sostituito da un altro profeta, prima di essere «ebraicizzato» attraverso il mito dell’esposizione. Il «nuovo» Mosè avrebbe introdotto poi un’immagine «più morbida» di Yahwè senza però riuscire a eliminare del tutto l’«ombra del dio di cui il suo aveva voluto prendere il posto».

Ne risulterà il dualismo di fondo della religione ebraica, caratterizzata dall’eterno ritorno del trauma dell’omicidio originario: un gesto dimenticato ma ineliminabile nel senso di colpa dei successori. L’avvento del cristianesimo – spiega Freud – coinciderà con il tentativo di Paolo di rielaborare quel rimosso all’interno di una nuova religione espiando il peccato originale attraverso la morte del Cristo sulla croce. Se, come scrive Bori, «il ragionamento freudiano valica qui i confini della conoscenza inoltrandoci decisamente nel «romanzesco», lo sforzo di chiudere il cerchio rimane assolutamente mirabile. Dietro al senso di colpa, infatti, non vi è per Freud solamente l’uccisione del profeta, ma quel trauma per l’assassinio primitivo del padre ripetuto con Mosè e Gesù e da Freud descritto in Totem e tabù (1913). Si trova in questo passaggio storico-antropologico la radice inconscia dell’antisemitismo, di cui l’autore sta vivendo un’ennesima e drammatica riproposizione storica.

La forza del «romanzo storico» freudiano – prosegue Bori – consiste nel veicolare un’immagine del tutto contraria a quella antisemita avanzata dai Protocolli di savi Sion. Il radicamento in Egitto della storia di Israele ha permesso a Freud di fare dell’ebraismo il vettore di una saggezza ecumenica e di un messaggio di liberazione universale che alcuni hanno visto all’origine della sua psicoanalisi. Lo scrupolo espresso nelle pagine iniziale dell’opera sull’opportunità di sottrarre al popolo ebraico il proprio figlio più grande è stato superato dal bisogno di esprimere una parola alta, e per certi aspetti anche teologica, contro la barbarie del presente.

In altre parole, quelle dello storico americano Yosef Yerushalmi, Freud ha compiuto «un atto di obbedienza differita» esaltando attraverso la figura di Mosè lo slancio verso la purezza e la verità insito nell’ebraismo e ripreso dalla psicoanalisi, la moderna scienza dell’anima. A Bori dobbiamo una delle prime disamine del testo, la prima a mettere in luce, seppure criticamente, l’intuizione freudiana sul «nucleo di verità storica» nella narrazione dei fenomeni religiosi, sul racconto nascosto nel racconto e sul rimosso come strumento per analizzare le contraddizioni nelle tradizioni e la loro ri-emersione. «Possiamo allora affermare – conclude Bori – che il «titolo d’onore» della psicoanalisi freudiana deve essere collocato in una prospettiva più vasta, come realtà che, particolare (ed ebraica) quanto alla genesi, è universale nell’essenza».