«Il caos climatico anche quest’anno ha prodotto fame, migrazioni di massa, immiserimento delle famiglie rurali. Basta ritardi e inganni»: il movimento internazionale agricolo La Vía Campesina-Lvc (164 organizzazioni locali in 73 paesi di tutti i continenti, in rappresentanza di circa 200 milioni di coltivatori) lancia la mobilitazione in vista della Conferenza Onu delle parti sui cambiamenti climatici (Cop21), a Parigi. Sul banco degli accusati le multinazionali che, «dopo aver prodotto fame e obesità, accaparramento delle terre, spostamenti di popolazioni rurali, adesso sperano di guadagnare ancora con la geoingegneria».

Secondo Lvc, «i governi hanno fallito, non proteggono i diritti delle persone e soprattutto quello al cibo; tanti si sono fatti cooptare dal settore privato» autore di soluzione false «con nomi accattivanti come i “meccanismi per lo sviluppo pulito”, la bioenergia e gli agro-carburanti, i pacchetti della “agricoltura climaticamente intelligente”». Intanto sono sempre più minacciate dalla distruzione sociale e climatica le vite di popoli indigeni e piccoli produttori. Ma nei paesi del Sud, sono loro a produrre l’80% del cibo per gli umani; lo hanno sottolineato a più riprese le stesse agenzie dell’Onu (Ifad, Fao, Pnue). «Lvc sostiene che la sovranità alimentare – con l’agro-ecologia contadina, i saperi tradizionali, il miglioramento e la condivisione dei semi locali, il controllo popolare sulle nostre terre, sulla biodiversità, sulle acque, sui territori – sono la soluzione giusta e sostenibile alla crisi climatica globale. Ma occorrono riforme agrarie effettive, acquisti pubblici delle produzioni contadine, fine dei devastanti accordi commerciali di libero scambio».

Il cibo globale guida il caos climatico. Secondo il rapporto Food and climate change: the forgotten link dell’organizzazione Grain, il ciclo agroalimentare globale, se preso nella sua interezza è responsabile di circa la metà di tutte le emissioni di gas serra.

Questa percentuale è molto più elevata di quella che molti studi indicano per le attività agricole: intorno all’11-15% delle emissioni globali. Ma, spiega il rapporto Grain, quei conteggi – oltre a non dire che l’agricoltura climalterante è quella industriale a base di input chimici, grandi macchinari e allevamenti intensivi -, trascurano il grosso del problema.

Intanto l’espansione della frontiera agrozootecnica – soprattutto per la produzione di mangimi e per usi industriali, soia, zucchero di canna, olio di palma, mais, colza -, fa retrocedere foreste, savane, terre umide, boschi, ed è responsabile al 70-90% della deforestazione, fenomeno che determina il 20% delle emissioni di gas serra globali. Dunque, ecco che un 15-18% delle emissioni globali di gas serra legate alla distruzione delle foreste e al cambio nell’uso dei suoli è imputabile ad agricoltura e allevamento.

Inoltre, l’agricoltura è solo una parte di tutto il sistema alimentare: le catene di trasformazione, confezionamento, trasporto, vendita sono energivore al massimo grado e, secondo Grain, contribuiscono al 15-20% delle emissioni globali.

Infine gli scarti agroalimentari in tutte le fasi, con la successiva decomposizione e produzione di metano (un potente gas serra), totalizzerebbero il 3-4% delle emissioni totali. Et voilà: sommando le percentuali, il sistema cibo totalizza fra il 44 e il 57% del totale delle emissioni di gas serra antropogeniche.

Dunque, «una ristrutturazione centrata su ecologia ed equità, sovranità agroalimentare, coltivazione su piccola scala, agro-ecologia e i mercati locali, taglierebbe di metà le emissioni globali in pochi decenni».