Non c’è bisogno di scomodare la macroeconomia per capire su quale criterio il governo italiano e la Ue si stanno avvicinando a quello che Matteo Renzi definisce «un punto di intesa». Trattasi infatti della classica «via di mezzo», che è sempre il compromesso più semplice, nei litigi di strada come negli austeri consessi della politica economica europea. L’aggiustamento previsto del deficit era dello 0,5%. L’Italia lo aveva fatto scendere allo 0,1%, in nome della fase emergenziale. Tre anni di recessione uno dopo l’altro, una deflazione di fatto: se non è una situazione eccezionale questa! Perché, dunque, non incontrarsi a metà strada, intorno a uno 0,3% che permetterà a tutti di brindare? Probabilmente andrà proprio così, e non a caso Renzi fa il noncurante: «Non ci sono preoccupazioni o problemi». E’ il medesimo «sconto» che verrà concesso alla Francia, dal previsto 0,8% allo 0,5%, e usare un diverso trattamento per la penisola sarebbe poco garbato.

Del resto Matteo Renzi, ieri a viva voce in quella che lui stesso descrive come «una trattativa tosta e accesa ma produttiva», e Pier Carlo Padoan, nella lettera che invierà oggi al commissario e prossimo vicepresidente della Commissione Katainen, hanno buoni argomenti. La fase in cui si dibattono l’Italia e mezza Europa, in gergo stagflazione, rende proibitive misure improntate a eccessiva austerità, che inevitabilmente avrebbero effetti pesantemente recessivi. Dunque persino i falchi di Bruxelles sanno di dover commettere un peccatuccio contro la religione del rigore inflessibile, e più o meno a bocca storta lo faranno. Anche perché non è che la modifica apportata alla proposta italiana sia proprio una carezza, pur se Renzi, comprensibilmente, ha tutte le intenzioni di farla sembrare tale.

La decisione della Commissione, annuncia il falchissimo presidente uscente Barroso, arriverà la settimana prossima. In ogni caso non sarà un verdetto definitivo. Quello, come ha ricordato Renzi mettendo per ogni evenienza le mani avanti, spetterà poi all’Ecofin, l’assemblea dei capi di governo, e alla nuova Commissione presieduta da Juncker. Ma lo stesso Barroso, protagonista giovedì del duello con il presidente del consiglio italiano e principale sostenitore di un verdetto senza sconti, apre qualche spiraglio: «Siamo per la massima flessibilità entro le regole esistenti. La Commissione sta verificando se c’è o meno una deviazione particolarmente importante rispetto alle regole». E’ una valutazione politica, non basata sui decimali, come politico è lo scontro che sotto traccia si combatte e si continuerà a combattere a Bruxelles.

Renzi lo sa perfettamente e cerca di spostare quanto più possibile il confronto su quel terreno, anche perché sul fronte sempre centralissimo della propaganda ha bisogno di imporre l’immagine di un premier che, per la prima volta da molti anni, non si presenta di fronte all’Unione europea ginocchioni e col cappello in mano. «L’Italia – dichiara infatti – non viene a prendere lezioni o reprimende. Il governo italiano rispetta tutti ma non si ferma davanti a nessuno. Ogni anno diamo all’Europa venti miliardi e ne prendiamo dieci. Serve in Europa una presenza più forte, orgogliosa e determinata dell’Italia». Stessi toni anche nel corso del vertice Ue. «L’Italia fa le riforme e gli aggiustamenti di bilancio perché è giusto, non perché ce lo chiede la Commissione», afferma spavaldo, per poi squadernare il paragone con le politiche vincenti adottate dalla Fed negli Usa, opposte a quelle europee, e chiedere quindi «un ripensamento».

Sullo stesso tasto aveva martellato qualche ora prima il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, e certo non è una coincidenza: «E’ grave che non si parli mai delle alte motivazioni alle origini della Ue e ci si accapigli sullo 0,1% dei bilanci. Dopo anni di austerity è giusto sollecitare politiche di crescita e sviluppo. La Ue non è un mostro che detta leggi inapplicabili, ma è giusto che si impegni per l’occupazione».

Alla fine, salvo sorprese, Matteo Renzi uscirà in piedi e politicamente rafforzato dal confronto con l’Unione europea. Le difficoltà inizieranno subito dopo. Se la manovra avrà successo lo aspettano allori di ogni sorta, e non solo a Roma. In caso contrario il conto sarà salato, e la flessibilità, peraltro minima e del tutto insufficiente, che verrà adottata stavolta diventerà una sorta di aggravante. In ogni caso le riforme (nonché le controriforme, come quella sul lavoro) promesse da Renzi e sin qui realizzate solo sulla carta verranno pretese nel 2015 con piglio esattoriale.