Risulterà probabilmente lo spettacolo dell’anno, per diversi motivi.

Non solo per il cast eccellente e numeroso (una trentina gli interpreti in scena, e una decina almeno i macchinisti impegnati); nemmeno per la scenografia strabiliante quanto «elementare» costituita da una serie di sipari successivi di velluto rosso, che aprendosi e incrociandosi danno luogo a visuali suggestive quanto significative; e nemmeno per il fatto di riproporre un bellissimo testo complesso e sincopato, pochissimo rappresentato, di un autore geniale quanto lungimirante, morto di tifo a soli 24 anni nel 1837.

La morte di Danton di Georg Büchner (in scena al Carignano per tutto il mese, e poi per due settimane al Piccolo di Milano, per la regia di Mario Martone) affascina ma può anche sconvolgere, in quelle continue e contraddittorie «rappresentazioni» che la politica cerca e si dà, attraverso i continui movimenti e squarci di sipari, in una lotta solo apparente tra bene e male.

La saga dei Giacobini che dopo aver fatto tutti assieme, ognuno con le sue personali doti e competenze, la rivoluzione francese, si massacrano (passando dalla delegittimazione livorosa dell’avversario alla sua sanguinaria ghigliottina), non è solo la base delle nostre moderne democrazie, ma ne rappresenta bene in questo caso anche la degenerazione e il parossistico degrado.

Qualcosa che tutti noi, in Italia come in Europa, stiamo oggi vivendo, e il cui squarcio visionario può risultare accecante.

Lo spettacolo è davvero un gigantesco affresco corale. Tutte le anime della rivoluzione, i suoi disegni, le sue politiche, le sue componenti sociali e quelle di genere, vi sono protagoniste e coinvolte.

Ma tutto ruota, come un doppio compasso di precisione, sui due perni costituiti da Danton e da Robespierre.

Il primo è il volto umano della rivoluzione, che ne comprende e pratica, oltre al fine politico, la variegata umanità di cui quello nei fatti si compone. Di fronte e contro di lui, l’inflessibile rigidità del pensatore puro, Robespierre «l’incorruttibile», che, molto oltre Machiavelli, adora come divinità, assoluta e impersonale, la «ragion di stato», senza ammetterne mai la fragilità, o almeno la necessità di un rapporto stretto con la realtà. Temendone altrimenti la rovina, o anche solo una incrinatura, se si tenesse ogni uomo nel dovuto conto.

A costo di sciupare il «giro di vite» drammaturgico, bisogna subito dire delle due interpretazioni straordinarie, quasi un esemplare duello, tra i due attori che a quei due personaggi danno corpo, Giuseppe Battiston (nel ruolo del titolo) e Paolo Pierobon.

Se avessimo premi seri per le scene di questo paese, come in America e in tutta Europa, sarebbero insieme da Oscar ex aequo.

Pierobon Robespierre è lucido e affilato, mai retorico o furbetto, insindacabile e necessario nel costruire e gestire le «colpe» dell’avversario; Battiston Danton, che qualche anno fa ci diede una sua personale e privatissima visione di Orson Welles, si è fatto lui stesso il «nostro Welles»: deborda, smisura, usa la sua fisicità imponente con sorprendente agilità, tra bordelli, innamoramenti, intuizioni politiche, fino a commuoverci nel profondo.

In agguato dietro uno scorrere laterale di sipario, o nella massa che scende in platea, ad estendere e platealmente condividere col pubblico (se ce ne fosse bisogno) l’ansia trasformatrice, la delusione degli altrui percorsi, l’elaborazione di un piano politico alternativo.

O anche semplicemente la felicità di marciare con tutta la composita umanità di un popolo rivoluzionario, cantando in coro il Marchons marchons della Marsigliese.

Büchner, geniale autore di Wojzeck e di Leonce e Lena, ha mano decisa e scultorea nel proporci questa grande e inquietante riflessione sulla politica. E ancor di più aiuta quel testo la nuova traduzione, approntata per l’occasione da Anita Raja per Einaudi. Senza forzature, ma quasi per una odierna consapevolezza, le parole del giovane autore tedesco ci suonano quasi familiari e immediatamente ricche e comprensibili.

A tutto il resto pensa la sensibilità registica di Mario Martone, di cui da tempo viene ammirata la capacità d’uso in teatro del suo riconosciuto occhio cinematografico, ma che qui fa evidentemente tesoro anche della maestria acquisita in campo operistico. L’armonia tra parole e suoni, che già aveva ispirato il grande successo popolare della sua recente Carmen, qui si fa ancora più eloquente e carica di significato.

Anche quando sembra stridere per l’occhio e l’orecchio ben temperati di qualche spettatore.

Sulle prime, può stupire ad esempio il fatto che il «popolo» sia di lingua e carattere prettamente partenopei, da imputare alle origini anagrafiche e culturali del regista. Ma immediatamente ci si ricorda poi che l’unica rivolta giacobina in Italia proprio a Napoli ebbe luogo, e che quella Repubblica Napoletana mandò sulle forche insanguinate della reazione guidata dal cardinale Ruffo di Calabria, Eleonora Fonseca Pimentel, Domenica Cirillo e tutti gli altri intellettuali che si erano ribellati al Borbone. Condanne pesanti eseguite nel tripudio di lazzaroni e sanfedisti presto passati dalla parte della tirannia. Proprio come a Parigi, per l’esecuzione di Danton, dove ad acclamare il sangue era già stato il popolo più povero, accecato dall’insofferenza per quei rivoluzionari «borghesi».

È un altro elemento di bellezza e ricchezza dello spettacolo di Martone, il suo snodo narrativo capace di legare la biografia artistica dell’autore (da Noi Credevamo alle Operette morali, da Il giovane favoloso ora a questa Morte di Danton) nell’indagine «all’indietro» della nostra storia, alla ricerca di ragioni profonde, e radici, e cordoni ombelicali mai staccati, che possano aiutarci a capire il perché di tanti misteri dell’oggi.

Anche per questo la coralità di questo grande teatro delle coscienze ha una presa irresistibile. Un insieme di voci e posizioni ci guida e attira, agite per altro da un ensemble di attori davvero extra ordinario.

Si è detto di Battiston e Pierobon, ma già quest’ultimo evoca l’equipe degli ultimi anni di Luca Ronconi e della compagnia con cui ha lavorato agli ultimi successi, dalla quale provengono diversi interpreti dantoniani, da Fausto Cabra (Saint Just) a Roberto Zibetti (Barére) a Gianluigi Fogacci (il giudice Fouquier Tinville); poi c’è Paolo Graziosi (un breve cammeo del rivoluzionario americano Thomas Payne); ci sono Max Speziani e Alfonso Santagata (attore oltre regista collaboratore assieme a Paola Rota) antichi sodali di Battiston; volti di altri spettacoli di Martone, come Roberto De Francesco, Giovanni Calcagno, Michelangelo Dalisi ed Ernesto Mahieux inconfondibile.

E ancora Denis Fasolo, Pietro Faiella e numerosi altri che andrebbero tutti citati. Mentre c’è spazio solo per le signore: Iaia Forte compagna accorata di Danton, Irene Petris (moglie di Desmoulins) bella con la sua indimenticabile creatura neonata,e Luciana Zazzera scatenata capopolo in gonnellone.

Un insieme letteralmente enorme, come si vede, che orchestrato da Martone (e accuratamente abbigliato da Ursula Patzak) si muove, combacia e si divincola con assoluta nonchalance.

Perché dello stesso regista sono il contenitore scenografico dei mirabili sipari rossi, e perfino qualche citazione artistica di prestigio, come il quadro del settecentesco François Boucher, che campeggia sulla visione del bordello dantonesco, che a sua volta lo cita nella dinamica delle figure.

Insomma è uno spettacolo tanto denso quanto godibile. Quel sovrapporsi e districarsi di sipari si fa pulsante rappresentazione della politica, brulichio di alta portata che si sostanzia in gesti piccoli, meschini, capaci di arrivare alla eliminazione fisica, con la complicità di apparati militari, magistratura e popolo cafone.

Radiografia dell’oggi non parolaia o ideologica, ma maledettamente concreta nella sua trasparenza. Non è necessario troppo dietrismo per trovare, già pronto nel testo di Büchner, esperienza di un partito o di una politica che puntano in alto, ma dove ognuno tirando le fila a proprio modo, cerca di far fuori l’altro, oppositore o ostacolo che sia. Con la morale usata come arma propria e impropria.

Una politica che si scopre corrotta, e persegue vendette e colpi bassi, false accuse e colpi di mano, usando l’arte antica di comprarsi il popolo. Fino a trasformarsi nel cimitero dei valori inizialmente propugnati.

Una visione pessimista ma realistica, di profonda amarezza. Suggellata e universalizzata dal minuto di silenzio che Martone in persona ha chiesto al pubblico, la sera della prima, per l’uccisione di Giulio Regeni.