Il 6 Giugno, il Centro Milanese di Psicoanalisi organizza un convegno dal titolo «Ansia e attacchi di panico». L’intenzione è di ragionare sulla differenza tra l’impostazione di strategie difensive che aspirano al puro contenimento dell’angoscia e la possibilità di «avviare percorsi di cura che conducano alla capacità di rappresentare e di pensare e ad aprire nuovi transiti fra corpo e mente, per ritrovare il desiderio di esplorare la vita».
Per la prima volta psicoanalisti afferenti alla Società Psicoanalitica Italiana affrontano la questione del rapporto tra ansia e «attacchi di panico», termine che ha avuto grande successo tra gli psichiatri, pur avendo prodotto una confusione seria tra due stati psicocorporei di natura diversa.

Il panico è una paura incontrollata, per lo più collettiva, che porta ad azioni irragionevoli, inconsulte, le quali possono mettere, e spesso mettono, in pericolo la vita. Nasce come reazione a una minaccia di sopraffazione della struttura psicocorporea che è associata a un pericolo oggettivo o percepito come tale a causa della misinterpetazione di un fatto reale. Sono esempio di panico il salto nel vuoto dai piani alti delle torre gemelle o i movimenti catastrofici di folla sotto la pressione di minacce reali o supposte tali.

Nella sostanza il panico corrisponde all’angoscia allo stato puro descritta da Freud: un eccesso di eccitazione/stimolazione dell’organismo che non potendo essere liquidato determina un grado estremo d’impotenza psichica. Produce un comportamento psicotico in soggetti non psicotici. In effetti, le azioni avventate nelle quali trova sbocco, servono a stabilizzare l’apparato psichico a scapito dell’interesse materiale del soggetto che le compie.
Tra la condizione di panico vero e proprio e la sindrome psichiatrica denominata impropriamente “attacchi di panico”, ci sono due differenze fondamentali: nella seconda, nessuno dei soggetti che ne soffre ha mai compiuto, sotto l’effetto d’angoscia che lo abita, un gesto irragionevole, dannoso per sé o per gli altri; inoltre, in essa l’angoscia non è mai associata a una minaccia reale. Il quadro clinico è identico a quello dell’ansia acuta (delle classificazioni precedenti): paura improvvisa di morire, svenire o impazzire, perdita di contatto con se stessi (depersonalizzazione) o con la realtà esterna (derealizzazione), sudorazione, tachicardia, vertigini. Solitamente c’è un legame evidente con l’agorafobia (paura degli spazi aperti) e/o claustrofobia (paura degli spazi chiusi).

Definire tutto questo come panico (l’ideatore è stato Cassano) non è stato un atto di ignoranza, ma una precisa operazione ideologica che ha stravolto il significato dell’angoscia. I disturbi di ansia non sarebbero il risultato di conflitti di natura emotiva, che implicano il timore di vivere e possono essere trattati psicoanaliticamente, ma destabilizzazioni psicocorporee ineludibili, da contenere e prevenire obiettivamente. Paure prive di implicazioni soggettive, e quindi non elaborabili psichicamente, da trattare solo con psicofarmaci e con dispositivi cognitivo-comportamentali.

Il successo dell’operazione «attacchi di panico», è andato al di là dei confini della psichiatria (resa sempre più dipendente dai farmaci): ha contribuito all’affermazione di un nuovo stile di vita. L’ansia è un segnale prezioso che indica che ciò che è più intensamente vivo dentro di noi stenta a esprimersi. Se invece di alleviarla per elaborarla, e viceversa, si preferisce silenziarla, si vive in anestesia e la vita è trattata come stato di panico che bisogna arginare.