Di Roland Barthes si è detto tanto, nel bene come nel male. Intellettuale eccentrico, affascinante, esoterico, più studioso della moda che suo seguace, ha segnato il Novecento con tocchi leggeri e progressivi, lasciando dappertutto quella manciata di segni – delebili e no – che erano anche e soprattutto l’oggetto dei suoi interessi di critico in tutti i sensi del termine. Il suo interesse verso qualsiasi linguaggio era un modo per additare e sfuggire alle incrostazioni stereotipe che i linguaggi stessi finiscono per generare. Con Barthes è sempre in bilico il gioco dei punti di vista, ora sui santoni del Canone come Racine e Michelet, ora sui maudits che tendono a disgregarlo come Brecht e Sollers; ora sulle retoriche dei media di massa (cucina ornamentale, foto choc), ora sugli oggetti della vita quotidiana (oggetti in plastica, detersivi). Quel che è certo è che Barthes è ancora un oggetto non identificato, misterioso e attrattivo, restando una miniera di idee e di modelli d’analisi utili per leggere il nostro presente, con quell’ironia e quella leggerezza accigliata che lo contraddistinguevano.

Ecco allora, allo scoccare del centenario della sua nascita (1915-2015) un lessico concettuale che, fra significati e significati, proverà a ricomporre i pezzi dispersi di questo immenso territorio di suggestioni e di spunti. Una lista di una cinquantina di entrate in questo labirinto senza alcun mostro da sfuggire o da uccidere, ma con innumerevoli percorsi da seguire fruttuosamente. Questi lemmi avranno una natura volutamente diseguale («Corpo/Linguaggio» starà accanto a «Frite», «Grado zero» accanto a «Vino/Latte») ma un analogo tono per trattarle, in modo da far emergere sia la poliedricità di interessi di questo autore che invocava a gran voce la morte dell’autore, sia la rigorosità dello sguardo con cui li attraversava.
Opera / Testo
Diciamo subito che la questione, urgentissima, odora di stantio. In essa c’è il nostro presente, topos dove il gambero, arretrando parecchio, s’è comodamente bloccato. Oggi nessuno sente l’esigenza di distinguere fra opera e testo. Eppure ce ne sarebbe, e ce n’è più che mai, incondizionato bisogno. In epoca di euforici recuperi del senso comune, dell’evidenza ontologica, di quella che Roland Barthes avrebbe chiamato l’impostura dell’obiettività, ripensare a quest’antica dicotomia aiuterebbe parecchio.
In un articolo poco letto e molto citato del 1971 pubblicato nella Revue d’Estétique e intitolato Dall’opera al testo, Barthes illustra i punti chiave della svolta in atto negli studi letterari e semiologici. Se sino ancora a metà degli anni 60 lo sguardo del critico era volto verso qualcosa come un’Opera, negli anni successivi l’oggetto della più avvertita ricerca viene modificato: si tratta del Testo, nozione che impone nuovi valori allo scrittore, nuovi statuti metodologici al critico. Più che essere un concetto esplicitato una volta e per tutte, il testo è concetto grimaldello, categoria strategica. Per questo, la teoria che lo delinea, sottolinea Barthes, coincide con una pratica della scrittura. La separazione tra discipline è il primo ostacolo contro cui il testo intende combattere, in nome di una concezione non più censoria del fenomeno linguistico. Ecco allora alcune indicazioni per ricostituirne le fattezze.

Dal punto di vista del metodo, opera e testo si distinguono nitidamente. Se l’opera è una cosa materiale (si tiene in mano, si colloca in una biblioteca) il testo è un campo metodologico: esso non è un oggetto ma l’attraversamento di ogni oggetto linguistico computabile. Anche dal punto di vista dei generi la divaricazione tra opera e testo è netta. Non si tratta di una distinzione tra tipi di discorso ma di una separazione che mette in crisi il principio delle classificazioni. Per questo, il testo oltrepassa i limiti del senso comune, ponendosi, letteralmente, come paradossale. Il testo è un’esperienza del limite che costringe a ripensare le regole della razionalità, della leggibilità, rimettendo in gioco la totalità del linguaggio.

Anche rispetto alla significazione, opera e testo assumono posizioni opposte. L’opera tende a presentarsi come un segno, è qualcosa che rinvia a qualcos’altro, una cosa che rimanda a un significato che riappacifica il significante con la società che lo ha prodotto. Il testo dilaziona invece il radicamento del significato. Così, il testo è plurale: esibisce il plurale del senso e la sua virtualità prima che questo venga fissato in interpretazioni istituzionali. Il testo, dice Barthes con Derrida, non ha nulla fuori di sé, non si distacca da un suo supposto al di là. Esso, in un certo qual modo, è identificabile con l’intertestualità: dal momento che è infratesto d’ogni altro testo, non ha origini, non è vessato da influenze, ma ricopre il terreno del già-letto, delle citazioni senza virgolette, dei codici culturali dissolti nel tempo. Così, se per l’opera è costitutivo il problema della filiazione da un autore o da una catena di altre opere (secondo criteri di attribuzione, di proprietà), per il testo non si danno eredità. Il testo non dipende da qualcos’altro ma cresce per espansione virale: è inserito in un reticolo che non ha inizio né fine, al cui interno prolifica per combinatoria. Non avendo proprietà o paternità, al testo non è dovuto alcun rispetto: non è pervaso da alcuna aura estetica.

Leggere il testo è ben diverso che leggere un’opera. Quest’ultima, secondo le leggi della divisione sociale del lavoro, viene consumata. Il primo invece viene fatto risuonare. Qui Barthes utilizza la polisemia del termine jouer, «giocare» e «suonare» al tempo stesso: leggere un testo vuol dire giocare con esso, nel senso ludico, ma vuol dire anche interpretarlo nel senso musicale. Leggere il testo è contribuire a scriverlo, partecipare all’atto di produzione simbolica. Da qui l’apertura alla tematica edonista. Per Barthes, occorre distinguere tra il piacere che si prova nel momento in cui si consuma un’opera (dove si mantiene una distanza rispettosa nei suoi confronti) e il godimento che si determina quando si ha a che fare con il testo.
Il godimento ha luogo quando si attua un tipo di lettura che riscrive il testo, cancellando ogni separazione tra opera e lettore. Avvicinandosi (inconsapevolmente) a Benjamin, Barthes ha chiaro che la disparizione dell’aura estetica è possibile soltanto a patto di superare la modernità e aprirsi all’utopia della pacificazione dei linguaggi.

Laddove il moderno vieta la possibilità di ricominciare, di ripetere, di riprendere il discorso, la teoria del testo si costituisce nella scommessa di andar oltre tale divieto. Restare all’interno di un’estetica dell’opera significa impedirsi non solo una pratica della produzione testuale, ma anche l’esperienza del godimento estetico. Solo passando attraverso la pratica scrittoria dell’illeggibile contemporaneo riesce possibile, a prima vista paradossalmente, sia ritrovare la possibilità di una nuova forma letteraria (ossia di un nuovo linguaggio) sia recuperare quel piacere estetico che l’intellettualismo moderno ha rimosso. La teoria del testo deve, per Barthes, inverarsi in una pratica della scrittura che sia nello stesso tempo esperienza critica ed edonismo della ricezione. Non basta, conclude Barthes, formulare queste proposizioni sul testo per attuarlo: occorre uscir fuori dal metalinguaggio e operare direttamente per e nella testualità.