Sono tre le generazioni cresciute studiando Michel Foucault, scomparso 30 anni fa. La prima lo ha conosciuto e ha frequentato le sue lezioni. La seconda si è formata sull’imponente raccolta di materiali dei Dits et Écrits pubblicati nel 1994. La terza è stata investita dalla valanga dei corsi al Collège de France che hanno modificato la percezione del filosofo.

Judith Revel, ordinaria di filosofia contemporanea all’università Paris-Ouest Nanterre e membro del consiglio scientifico del Centro Foucault, si è ritrovata nel mezzo. Ha conosciuto la prima generazione e ha visto crescere la terza che oggi usa Foucault in campi diversi. «I corsi al Collège de France mostrano come Foucault costruiva il suo pensiero. – afferma – Fino a quindici anni fa avevamo accesso al pensiero compiuto dei libri, percezione modificata già in parte dai Dits et Écrits. Oggi cogliamo nei corsi la ricerca foucaultiana, il momento della sua elaborazione. Mostrano in particolare che non esiste una cesura tra il decennio politico degli anni Settanta e l’apertura degli studi sull’etica antica».

Molti studiosi hanno sostenuto che il «trip greco-romano» portò Foucault a maturare una visione estetizzante della vita. È d’accordo?

Foucault deve molto a storici come Pierre Hadot o a Peter Brown, ma il suo problema non è l’esattezza filologica. Egli usa gli antichi per capire come, di fronte al potere, le «controcondotte» diventano pratiche che implicano, per quanto è possibile, la produzione di nuovi modi di vita e nuove forme di rapporto a sé e agli altri. La sua insistenza sull’estetica, cioè il «fare della propria vita un’opera d’arte», si spiega con l’esigenza di legare la resistenza a una potenza d’invenzione. Visto che non si esce mai dalle determinazioni del proprio presente, questa invenzione diventa un gesto costituente quando «eccede» ciò che ci fa essere quello che siamo.

Cosa intendeva Foucault quando diceva che l’obiettivo della filosofia dev’essere quello di «rifiutare ciò che siamo»?

Non significa che possiamo uscire dai rapporti di potere, ma possiamo individuarli, farne la cartografia, tentare di torcerli, spostarli, interromperli. La questione della critica non è solo quella del necessario riconoscimento dei nostri limiti stabilita da Kant. Foucault si «riappropria» di Kant e segnala la possibilità di sperimentare una differenza possibile. Con questa espressione egli intende una sperimentazione propositiva, affermativa, un pieno ontologico. Una «produzione» dice Foucault.

Perché Foucault diffidava delle teorie sulla liberazione?

La liberazione dal potere si riferisce sempre al potere. La «pratica intransitiva della libertà», invece, non esclude la liberazione ma rappresenta un elemento asimmetrico rispetto al potere. È una ricerca e sperimentazione permanente della differenza. Qual è la differenza possibile oggi? Questa, credo, è la domanda critica per eccellenza ed è cio che dovrebbe permetterci di lottare meglio e di più.

Che cosa significa resistere oggi?

Per Foucault i rapporti di potere sono «azioni sull’azione libera degli uomini» e implicano una gestione, un’amministrazione, uno sfruttamento della libertà. La resistenza, invece, se non si limita ad essere un contropotere, cioè un altro potere, deve introdurre un elemento di asimmetria rispetto al potere. Non se ne libera mai, perchè non si esce mai dai rapporti di potere, ma fa qualcosa che il potere non può fare. Produce un’eccedenza che inaugura, letteralmente, la vita stessa dall’interno delle maglie del potere. Parliamo di un’ontologia immanente: non è una metafisica, ma è legata alle pratiche e si gioca sul terreno della vita intesa come esistenza. Questa eccedenza inaugura la vita.

Su cosa sta lavorando la nuova generazione di studiosi che si è avvicinata a Foucault?

Sono tanti e sono bravissimi. Riescono ad intrecciare una formidabile conoscenza del corpus teorico e l’uso libero della «scatola degli attrezzi» foucaultiana. In Italia c’è la rivista on line «materiali foucaultiani»: un bel lavoro di riflessione sui testi, ma anche l’investimento di campi inediti e la sperimentazione d’innesti filosofici appassionanti. Penso al lavoro di cartografia biopolitica dei dispositivi di gestione dei migranti nel Mediterraneo svolto da Martina Tazzioli; o al modo in cui Daniele Lorenzini legge insieme Foucault, Wittgenstein e alcuni autori del «perfezionismo morale» come Arnold I. Davidson o Stanley Cavell. E poi bisogna ricordare tutte le situazioni di lotta dove Foucault resta uno strumento critico fondamentale, basti pensare alla ripresa del movimento degli intermittenti e precari in Francia: diagnosi, conflitto e invenzione. Questa è la politica della «differenza possibile».