Si narra che, al tempo del mito, alcuni serpenti lambirono le orecchie del greco Melampo permettendogli così di comprendere il linguaggio degli animali; il giovane, ricompensato per aver salvato da morte certa una nidiata di serpi, ricevette in dono l’iniziazione a un mondo sonoro totalmente altro. Che cosa avevano mai da riferire ofidi, upupe e capre all’indovino sulle vite degli elleni? E se anche noi oggi potessimo comprenderne i versi, cosa avrebbero da dirci gli altri animali?
Da pochi giorni in libreria, Penne e pellicole. Gli animali, la letteratura e il cinema (Mimesis 2014, pp. 209, euro 18) di Massimo Filippi ed Emilio Maggio rappresenta una densa raccolta di saggi dove il tema della «lingua animale» – lingua «tattile» e dell’incontro, così come definita dai due autori – viene sondata attraverso la letteratura e il cinema, forme di arte che sono in grado di «farsi eccedenti, di caricarsi di una portata destabilizzante», in poche parole, di lasciare trasparire l’alterità dandole voce. Si tratta di porsi in una condizione di «ascolto dialogante» verso quei soggetti che sono stati storicamente rinchiusi in recinti simbolici e materiali posti ai confini dell’umanità, esseri viventi depredati, con malcelata tracotanza, delle loro vite e desideri.
Nella costruzione di quell’artificio che è l’Umano (non a caso, maschio, adulto, sano, occidentale, eterosessuale e di classe sociale «elevata»), l’Animale ha rappresentato un contro-termine che, operando da specchio oscuro, ha consegnato un’idea di umanità purificata dai suoi retaggi ferini ed elevata a misura del vivente. Favola questa, tutt’altro che innocente, prodotta ad hoc da un’ideologia che, naturalizzando i rapporti di dominio tra noi e le altre specie, ha portato a vedere negli animali oggetti alla mercé di vezzi «umani, troppo umani».
Come scardinare allora i meccanismi di questa macchina antropologica – nella definizione che ne dà Giorgio Agamben – che si alimenta quotidianamente in quelle distopie (luoghi del male) che sono i macelli, gli allevamenti industriali, gli zoo e ogni altro (non)luogo dove va in scena il dolore animale? Filippi e Maggio, come due argonauti contemporanei, si mettono in cammino sulle orme degli «animali stregoni», cantastorie senza tempo, sapienti narratori di un «punto di vista delle bestie». Sono quelli, ad esempio che emergono dal racconto Ricci (la cosa giornaliera) di Linnio Accorroni (Italic, 2001, pp. 124, euro 14) dove la malattia dell’anziano protagonista umano, colpito da un tumore e prossimo alla morte, è paragonata agli ultimi passi compiuti dai ricci prima di morire quando entrano in collisione con le nostre automobili. Animali che sembrano sottolineare quanto in fondo si tratti di un comune destino quello che ci assimila al resto del vivente, un tremore dinnanzi al nulla che è la vita, mistero che resta inaccessibile tanto per gli uomini, quanto agli animali e nel quale cessa qualsiasi validità il confine che li separa. Mistero della vita che è presente anche nella pellicola di Michelangelo Frammartino, Le quattro volte (Italia, 2010), film-capolavoro dove protagonista è l’anima vitale – l’elan vital lo chiamava Henri Bergson – che connette circolarmente uomini, animali, piante e minerali.
Nelle trasmigrazioni del flusso, metempsicosi che viaggia dal pastore alla capra, dalla capra all’albero e dall’albero al carbone, lo spettatore può esperire un cambiamento prospettico – cosa si prova a nascere capretto in un paese fantasma della Calabria? – dove prende piede una serrata critica all’antropocentrismo che riporta l’uomo, scrivono Maggio e Filippi, ad animale tra altri animali.
In conclusione, per ritrovare quella lingua panica comune a tutti gli esseri viventi, la proposta degli autori avanzata nel volume è duplice: da un lato la messa in arresto di ogni prassi che genera categorizzazioni poiché è nella morsa stretta imposta dal linguaggio umano che si arresta il fluire del vivente.
Dall’altro lato, c’è un riconoscimento: la differenza che intercorre tra noi e gli altri animali non è sinonimo di gerarchia, ma punto di forza per iniziare a pensare al vivere comunque come uno spazio condiviso da tante «singolarità animali», al di là delle specie di appartenenza, verso una liberazione che è anche, e soprattutto, «liberazione dalla tassonomia». Un semplice riconoscerci nell’animale che siamo, come «rifugio della speranza che si annida tra le crepe prodotto dalla guerra sulla pietà».