Si è concluso ieri a Roma l’Incontro mondiale dei movimenti popolari, fortemente voluto da papa Francesco e da quella parte della chiesa cattolica convinta che occorra tornare al messaggio del Vangelo.

In primo piano, l’impegno di Joao Stedile del Movimento Sem Terra e dell’organizzazione internazionale Via Campesina. Fra i principali organizzatori, i movimenti argentini dei lavoratori informali e del riciclaggio, che per primi hanno discusso con il papa a Buenos Aires.

Forte anche la presenza del movimento delle fabbriche recuperate che, dal Venezuela all’Argentina, all’Italia prende sempre più vigore: con l’appoggio esplicito del governo socialista, come in Venezuela o con il parziale sostegno della legge, come in Argentina, o in aperto contrasto con una situazione di crisi che continua a pesare sui ceti sociali, come in Italia (al convegno hanno partecipato gli operai della Ri-Maflow, Genuino Clandestino e l’associazione Sharewood del centro sociale Leoncavallo).

Un centinaio di delegati dei cinque continenti ha portato nell’agenda mondiale la voce degli esclusi. E i temi di Terra, Casa, Lavoro sono stati al centro dei tavoli di discussione, insieme a quelli della difesa della natura e dell’opposizione alla guerra. Non solo diritti, quindi, ma soprattutto lotta e organizzazione per conquistarli, a fianco o contro i governi che li programmano o li calpestano.

E alla fine, una piattaforma comune per portare avanti le rivendicazioni. Si è anche discusso di violenza di genere e di libertà femminile, significata dalla nutrita presenza delle donne – poche, però, al tavolo della presidenza. Dall’Asia all’America latina, le donne hanno portato la loro esperienza di resistenza e di proposta: dalle associazioni mondiali di riciclo, a quelle sindacali o contadine.

«Nel mio paese la violenza contro le donne è altissima – ha detto al manifesto la dirigente salvadoregna Ana Maria Calles, la cui organizzazione contadina fa parte della Via Campesina – siamo esposte agli abusi della polizia e alla parzialità dei giudici. Io sono stata in carcere per 22 giorni, più lunghi di 22 anni perché ho subito ogni genere di pressione psicologica e minacce. Il mio reato? Aver occupato le terre in un paese di fortissime disuguaglianze che sconta ancora la nefasta eredità del periodo di dittatura».

Adesso c’è il governo progressista di Salvador Sanchez Ceren, ex comandante guerrigliero del Frente Farabundo Marti, e a lui «i contadini chiederanno di rendere effettiva e migliore quella parvenza di riforma agraria varata dopo il processo di pace, ma il cammino è lungo, e speriamo che possa giovarsi del sostegno dei paesi dell’Alba, a cui il nostro presidente si sta rivolgendo». Ana Maria è fra quelle che ha rivolto più critiche alla poca visibilità che l’Incontro mondiale ha dato alle donne.

Alla chiesa di Francesco chiede che riconosca come santo il vescovo salvadoregno Oscar Romero, ucciso davanti all’altare durante la dittatura. E pone con forza la questione del sacerdozio femminile: «Una discriminazione insopportabile – dice – nel mio villaggio un sacerdote ha ceduto diverse volte il passo a una suora, che ha detto messa, e così avviene già in altre parti dell’America latina. È ora che le cose cambino nella chiesa di papa Francesco».

Un primo momento di un’agenda più ampia che prevede lo sviluppo del confronto e l’impegno concreto nei singoli paesi.

[do action=”quote” autore=”papa Francesco”]«Tutte le volte che parlo in difesa dei poveri mi dicono che sono comunista, ma questo è sempre stato il messaggio del Vangelo»[/do]

 

La piattaforma comune consentirà di articolare l’agenda sia fra le diverse organizzazioni, che con la «chiesa di Francesco» a livello locale. Un lavoro non facile dove la maggioranza dei vescovi ha una lunga pratica di ingerenza e contrasto ai governi socialisti e progressisti, e ha preso spesso parola in difesa delle oligarchie.

«Tutte le volte che parlo in difesa dei poveri mi dicono che sono comunista, ma questo è sempre stato il messaggio del Vangelo», ha affermato il papa in un appassionato intervento contro il capitalismo e la «globalizzazione dell’indifferenza».

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Il presidente della Bolivia, Evo Morales, è intervenuto come leader indigeno e sindacalista «cocalero» e ha messo l’accento sul rapporto tra difesa della natura e necessità di lottare contro il capitalismo, per il bene comune e contro chi difende il profitto per pochi.

«La terra concentrata in poche mani è fonte di tutte le ingiustizie sociali», ha detto il presidente indigeno ricapitolando il riscatto dei popoli originari nel suo paese: non solo con la protesta, ma anche con la proposta di governo, nonostante il discredito diffuso dalle oligarchie bianche. «I popoli indigeni – ha detto – sono quelli che storicamente possiedono la morale e l’etica per poter parlare di difesa dell’ambiente. Ma tutti dobbiamo convincerci che se la natura può fare a meno dell’essere umano, il contrario è impossibile. Il primo nemico del pianeta è lo stesso uomo».

Poi ha rivendicato l’accesso e il controllo delle tecnologie per i paesi in via di sviluppo, fondamentale per il benessere e la crescita dei popoli di fronte all’indifferenza dei paesi industrializzati e ai loro monopoli. Morales, appena rieletto a grande maggioranza in Bolivia, ieri ha incontrato alla Sapienza studenti e giornalisti e ha poi partecipato a una partita di calcio, sport a cui si dedica con passione fin da bambino.