C’è un fondo di timidezza che fa simpatia nello sguardo di Jonathan Lethem: parla della letteratura come di una forma di solidarietà, un modo di abitare le vite degli altri senza giudicarli; si mostra stupito, quasi imbarazzato, quando apprende che nella più antica università europea il suo lavoro è materia di studio. Siamo nella residenza dove è ospite presso la sede fiorentina della New York University, e per un mese insegna creative writing.
L’atmosfera è decisamente informale: quello che, per la critica statunitense, è l’autore dei Buddenbrook americani, mi accoglie in cucina, dove più tardi arriveranno anche i suoi bambini, a curiosare e a sedersi sulle sue ginocchia. «Questa storia dei Buddenbrook è uno specchietto per le allodole», si schernisce. E aggiunge, quasi a giustificarsi: «La colpa è mia. Quando hanno cominciato a lodarmi dicendo che avevo scritto i Buddenbrook della sinistra americana, io volevo essere educato, ringraziavo senza negare, anche se a dire il vero a quel libro proprio non ci ho mai pensato».
Autore di romanzi di culto quali Brooklyn senza madre, La fortezza della solitudine e Chronic City, in cui rivisita i generi canonici per trasformarli in tour de force linguistici, narrazioni avant pop o fantasie distopiche, Lethem propone nei Giardini dei dissidenti (recensito su Alias il 18/5/2014) la storia di una famiglia di comunisti americani, dalla Grande Depressione ai giorni nostri. Protagonista della serata di lunedì alla Milanesiana, Lethem sarà poi a Roma per il Festival delle letterature il 24 giugno. Il suo romanzo sembra prestarsi a un’improbabile comparazione tra la fine del comunismo statunitense e la situazione italiana, dunque la nostra conversazione non può che partire da un commento sugli intenti politici della sua trama.

Che effetto le fa questa «appropriazione politica» del suo lavoro?

Per prima cosa devo dire che, non comprendendo la lingua e non potendo leggere i giornali italiani, la situazione sfugge al mio controllo. Il dibattito se il mio sia un romanzo politico si riapre dappertutto, a ogni presentazione. E ogni volta, malgrado le difficoltà linguistiche e l’enfasi posta sul contesto politico da chi mi introduce, io cerco di sottolineare che si tratta piuttosto di un libro sull’umana sofferenza, sul desiderio e sui paradossi del nostro essere nel mondo, così isolati e al tempo stesso così dipendenti dagli altri. Sono cose estremamente difficili da definire: la gente preferisce parlare di cose più tangibili, più chiare, più precise. Ogni volta che scrivo un nuovo romanzo, si trova sempre qualcosa di cui parlare per non affrontare le ambiguità della narrazione. Quando uscì Ragazza con paesaggio, svelai che ero stato ispirato da certe immagini dei western di John Ford e, in particolare, da Sentieri selvaggi. Pensavo soprattutto al protagonista, John Wayne, come figura del paradosso, del pericolo e delle possibilità americane. Il risultato fu che dovunque andassi invece di discutere del romanzo si parlava di John Wayne.
Anche di questo è fatta la natura umana: il romanzo rappresenta una sorta di abisso sul quale la gente ha timore di affacciarsi per paura di caderci dentro; eppure ne è attratta, vuole avvicinarsi, ma è terrorizzata all’idea che il romanzo possa esporla, cambiarla, o anche solo confonderla. Così noi le offriamo una scala per scendere nell’abisso, ovvero le permettiamo di parlare d’altro. E allora, nel corso del tempo, mi sono trovato a parlare di gentrification, John Wayne, cultura pop, fumetti, e oggi di comunismo, Obama, movimento Occupy, tutto sempre senza affrontare quel che veramente mi sta a cuore. Detto ironicamente, se ho mai scritto un libro politico, quello è Chronic City, un libro molto arrabbiato, contro il capitalismo. È una critica gigantesca della guerra, della politica e della cultura americane, scritto in un periodo in cui ero inorridito dalla città di New York e dalla sua amministrazione, ma non è stato letto in questo modo perché i protagonisti non erano politicizzati, anzi vivevano in maniera molto superficiale.

Allora è per questo che ha deciso di mettere degli attivisti al centro del suo nuovo romanzo?


No, non l’ho fatto certo perché la gente prendesse il mio libro più sul serio vedendo che i personaggi erano più impegnati. In un certo senso, i miei ultimi romanzi sono due facce della stessa medaglia: i personaggi di Chronic City sono individui affetti da amnesia storica, sullo sfondo di un immenso disastro. Quando l’ho scritto, avevo in mente questa immagine: un quadro di Bosch sullo sfondo e il mondo di Seinfeld, una sciocca sitcom americana, in primo piano. Le due immagini non comunicano e, a un certo punto, i personaggi cominciano a notare il quadro sullo sfondo e si rendono conto di vivere in un inferno.
I giardini dei dissidenti è un romanzo sulle forme che prende l’idealismo quando lo vivi sulla tua pelle, come incide sulla vita quotidiana, familiare, personale, intellettuale, sulla tua casa, le tue relazioni, e sui vari modi in cui può divenire difforme e stravolto, assurdo e tragico. Per scriverlo ho potuto usare informazioni di prima mano sulla vita degli attivisti di sinistra, perché ci sono cresciuto in mezzo, mi ci identifico e ci sono ancora profondamente affezionato. C’è un grosso coinvolgimento emotivo in questo romanzo, perché so che tipo di vita conducessero i leftists in America, che costi umani dovevano pagare.

Nei «Giardini dei dissidenti», al centro della vicenda sono due donne, creature di carne e sangue: il suo sembra non essere tanto un romanzo di idee quanto di corpi. È d’accordo?

Concordo in pieno. Se c’è una cosa che vorrei dire è proprio che il mio è un libro sul corpo e lo si può comprendere solo a partire dal corpo, dal suo muoversi nello spazio sociale e politico, con la sua fame, la follia, i paradossi, le dipendenze e l’animalità. Non mi stancherò mai di ripetere che questo non è un libro politico, ma sulle menzogne di coloro che credono di fare politica, le loro sofferenze, le loro delusioni.
Non ho inventato questi personaggi: ho aperto la porta a mia nonna e a mia madre perché entrassero nel racconto, nei panni di Rose e Miriam. Miriam, soprattutto, è un personaggio che sfida continuamente i propri limiti. La vediamo esplorare il mondo dei folk singers, degli hippies, delle comuni: è una che gioca su molti tavoli. Ho conosciuto molte persone come lei, mia madre era così, persone che potrei definire autentici bon vivants, la cui energia si riversa sugli altri e li rende più grandi. Miriam ha questo talento.

Il riferimento a sua madre riporta al saggio finale della raccolta «Memorie di un artista della delusione», dove scrive: «Mi ritrovo a parlare della morte di mia madre dovunque vada in questo mondo».
Sì, la morte di mia madre è l’immagine attorno cui si organizza tutto il mio mondo, una perdita da sopportare e sulla quale costruire la mia realtà. E tuttavia, non si è trattato di qualcosa di magico e improvviso accaduto con la sua scomparsa, perché il mio immaginario, il mio bagaglio metaforico si era già formato, prima dell’adolescenza, nella città in cui vivevo, nel massacro di utopie in atto ben prima della sua morte. New York negli anni ’70 era una città pervasa e definita dal suo stesso senso di fallimento, una città distopica, abbandonata, irrecuperabile, e noi ci vivevamo.
Il sogno degli anni ’60, impersonato dai miei genitori, intorno al 1973-74 si stava disgregando. Si aveva la sensazione di dover pagare per il passato: il mondo affascinante della mia famiglia stava crollando. Sentivo intorno a me un senso di perdita e distruzione irreparabile; vivevo in un mondo sull’orlo del collasso. L’idea che mia nonna aveva dell’olocausto e della distruzione dell’utopia europea mi impressionava profondamente: diceva che per quanto grande e ricco fosse il nostro mondo, presto o tardi sarebbero tornati i nazisti e ci avrebbero privati di tutto. Tutto questo, in maniera diversa, mi aveva preparato all’imminenza di una perdita. E quando mia madre morì ebbi la conferma che quella perdita era arrivata. Quindi, piuttosto che un evento tragico inatteso attorno a cui si coagula tutta un’esistenza, la morte di mia madre, per quanto possa sembrare strano se riferito a un ragazzino di quattordici anni, fu la conferma di un disastro annunciato, dell’irrimediabile crollo di ogni utopia.

E crede ancora che il crollo delle utopie sia irrimediabile?

Certo. Ma credo anche che valga la pena perseguire le utopie temporanee. Per questo nei Giardini dei dissidenti lego l’immagine dei Sunnyside Gardens non alla storia politica ma all’idea di un’utopia temporanea. Nella Fortezza della solitudine scrivevo che l’utopia è quello spettacolo che chiude sempre la sera della prima. In questo romanzo cerco di spiegarlo. Ci avevo già provato in Non mi ami ancora, raccontando di una rock band che ha un momento di gloria per una sola sera e nella Fortezza della solitudine, inserendo immagini come quella dei bambini che giocano in strada, al di fuori del tempo. Sono tutti brevi momenti utopici, caratterizzati da un forte senso di umana coesione, prima che il tempo li spazzi via. Una delle proprietà fondamentali dell’utopia è il suo essere temporanea: non è un luogo, non è un prodotto che si può inscatolare, è un’esperienza.

Nei suoi romanzi c’è un enorme senso del movimento, del luogo e dello spazio, soprattutto urbano, come se la sua perdita e il racconto di quella perdita fossero divenuti lo spazio su cui fondare una casa di parole.


È vero. Sono molto orgoglioso di Brooklyn senza madre e della Fortezza della solitudine proprio per l’intensità della relazione col luogo che esprimono. Mi sono concentrato su pochi isolati. Brooklyn è troppo vasta e io mi sono detto: dimenticati il Grande Romanzo Americano, il Grande Romanzo di New York, parla solo di poche strade e di ciò che provi per loro, racconta la tua esperienza personale della strada. I Giardini dei dissidenti è la Fortezza della solitudine di mia madre. Riproduce la sua partenza dai distretti esterni verso Manhattan, il desiderio di Manhattan che hanno gli abitanti dei distretti come Queens e i loro rimpianti. Queens è molto differente da Brooklyn: Brooklyn mantiene una sua vanità ferita, ricorda di essere stata una grande città. Queens nasce come sobborgo, è un quartiere dormitorio. Non ha mai avuto una sua individualità, è sempre stato un segmento di Manhattan.

Possiamo considerare «I giardini dei dissidenti» come la «canzone segreta di New York» che, nel romanzo, Tommy Gogan vorrebbe comporre?

Sì, mi piace quest’idea. Sono molto affezionato a Tommy Gogan, il folk-singer che ricerca le voci dimenticate. Forse mi identifico un po’ con lui: per scrivere questo libro ho fatto molte ricerche, dato spazio a voci che non sono la mia. Volevo comprendere fino in fondo quelle persone, quei tempi, avvertivo l’urgenza di capire sempre di più. Il romanzo è un tentativo di «parlare per voci», di rianimare il linguaggio perduto della fede comunista.