Ha debuttato più di un anno fa, ma continua a coinvolgere e affascinare il pubblico, nonostante la durata superiore alle tre ore. Scritto nel 1949 da un giovane e già arrabbiato Arthur Miller, è stato riletto, rivissuto e in qualche modo «indossato» da Elio De Capitani con i suoi compagni dell’Elfo: è un vero classico contemporaneo Morte di un commesso viaggiatore (ancora stasera e domani al Massimo, poi a Pistoia , Lugano e Pesaro, a conclusione della tournée di quest’anno). Del resto quel titolo, entrato perfino nel linguaggio quotidiano, è stato cavallo di battaglia di grandi attori, da Stoppa a Orsini (e al cinema da ultimo Dustin Hoffman); eppure oggi la vicenda dell’uomo abbagliato dall’american dream, e che per raggiungerlo si inventa di sana pianta valori, strumenti, equilibri e bugie, ci suona di nuova attualità.

 
Dev’essere per questo che ha conquistato l’attore e regista del Teatro dell’Elfo, che da anni fruga nel sogno americano, afferrando per il bavero, e per la propria interpretazione, quei personaggi che ne sono sostenitori esagitati, benché ne scoprano chiaramente il valore fasullo: dal politicante di Angels in America al Nixon più che Frost di pochi anni fa.

 
Qui non c’è solo la crisi economica planetaria, c’è la dimensione tutta familiare (sempre prediletta da Miller) con figli allo sbando e mogliettina acquiescente sotto la catastrofe incombente, a rendere anche noi parenti stretti del protagonista Willi Loman. Mai come oggi quel sogno ci appare «avvelenato», come suggerisce dal programma di sala Peter Kammerer. In quell’interno asfissiante di ambienti che paiono armadi e viceversa, unificati dagli orridi parati a fiori, il commesso viaggiatore e la sua famiglia, e i suoi parenti defunti, e i vicini di casa quali ingombranti termini di paragone, scoprono presto l’artificiosa precarietà dell’ideologia del successo. E quella che allora poteva risultare un’immagine estremista (il licenziamento da parte della ditta quando lui ha 63 anni) è divenuta per noi una notizia di ricorrente routine.

 
Se i due figli hanno modo, anche sotto la doccia, di esemplificare chiaramente le due possibili modalità di reazione, De Capitani e Cristina Crippa (che fa sua moglie) ci porgono le loro contraddizioni in una sorta di porte girevoli tra realtà e fantasia, nobili desideri e pratiche imbrogliesche, poche capacità di lavorare ma grande abilità nella elaborazione di realtà di comodo. Tanto da rendere avvincente e coinvolgente un racconto di più di sessant’anni fa, che pure è destinato fin dal titolo rivelatore a un finale tragico, seppur grottescamente ammantato dell’assicurazione che dopo il suicidio sarà di garanzia per gli altri.

 
Un bell’apologo che racchiude una indagine spietata, grazie alla bravura dell’ensemble. L’Elfo del resto è diventato negli anni uno dei luoghi privilegiati di lavoro e costruzione teatrale, capace di conquistarsi, in tutti i sensi, una sua ineccepibile moralità.