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In un mirabile passaggio della Montagna incantata, Thomas Mann fa dire a un personaggio del romanzo una frase che ricorre spesso nelle discussioni oziose sulla percezione del tempo: talvolta le giornale, le settimane, i mesi e gli anni passano veloci; altre volte un giorno sembra durare come un anno. Discussione non può essere relegata solo a una percezione individuale, ma che investe invece la natura stessa del legame sociale. Il romanzo di Mann, è noto, si svolge in un sanatorio tra le montagne, dove la scansione della giornata dei malati vede rigide regole e attività da rispettare alla lettera; una rigida agenda necessaria per mantenere la connessione tra un microcosmo autoreferenziale e la realtà della città, dove tutto invece era frenetico. La montagna può essere il luogo della sospensione del tempo, ma deve comunque un nodo di una modernità metropolitana che ha scardinato, mandato in frantumi il tempo naturale e quello convenzionalmente vincolato al ciclo solare del giorno.

La frase di Mann introduce e riassume bene il breve saggio Accelerazione e alienazione del sociologo e filosofo tedesco Hartmut Rosa (Einaudi, pp. 119, euro 18), che da anni si dedica a smentire la tesi secondo la quale la tecnologia ha provocato un’accelerazione sociale. Per Rosa, infatti, più che di accelerazione sociale, bisognerebbe parlare di ridefinizione delle convenzioni sociali legate al tempo, anche’esso convenzione sociale. Salta infatti il confine tra tempo di vita e tempo di lavoro, perché il lavoro tende a monopolizzare la risorsa «tempo». È annullato anche l’altro elemento centrale della modernità, lo spazio, perché la tecnologia consente la presenza, seppur virtuale, di uomini e donne separati da oceani e continenti. La suddivisione e la scansione della giornata deve lasciare il campo a altri «orologi», scanditi anche essi dal lavoro, che ha la capacità di disegnare l’intera vita sociale a sua immagine e somiglianza. Una situazione che accentua l’alienazione, che in questo saggio è un termine che serve a qualificare il senso di smarrimento, di ansia, di accidia, di malinconia e inadeguatezza dei singoli rispetto ai ritmi sociali.

Rosa non concede tuttavia nulla ai teorici della decrescita. Né è sensibile alla critica della tecnostruttura. È semmai interessato a comprendere come questa fase di transizione da alcune convenzioni sociali, che definivano la salvaguardia della vita privata dal lavoro, ad altri «orologi» sociali non coincida con la cancellazione di una «promessa» insita nella modernità di poter liberare i singoli dalla gabbia d’acciaio del lavoro.

La tecnologia non è però la leva, meglio lo scudo protettivo di quella promessa di liberazione del tempo (e dello spazio) dalla colonizzazione del lavoro. Ha un ruolo ambivalente che la rende sia strumento di oppressione che di potenziale liberazione dalla gabbia del lavoro.

La tecnologia non dà dunque un valore «negativo» alle convenzioni sociali, ma neppure aiuta al superamento dell’alienazione come declinata da Rosa. La deflagrazione del tempo sociale è però un’opportunità, perché nei frammenti possono celarsi le coordinate di una vita d’uscita dalla società fondata sul lavoro. Imboccare la quale serve un’accelerazione delle pratiche sociale di sottrazione dal lavoro che, Rosa non lo scrive mai, è sempre lavoro salariato.