Neppure l’ultima partecipata consultazione popolare promossa dal Comitato Acqua Bene Comune di Reggio Emilia, nella forma di mozione per chiedere l’autentica ripubblicizzazione del servizio idrico integrato (che ha raccolto nel giro di qualche settimana poco meno di 4.000 firme), è valsa a modificare la decisione di andare verso una privatizzazione del servizio idrico sotto mentite spoglie.
Il consiglio comunale di Reggio Emilia, governato a larga maggioranza dal Pd, ha votato, il 14 dicembre, per l’affidamento della gestione del Servizio idrico integrato (Sii) ad una società mista di cui il socio privato di minoranza (che avrà con ogni probabilità il 49% del capitale) sarà Iren, attuale gestore del servizio.

Dopo i risultati dei due referendum sull’acqua del giugno 2011 (più di 250.000 reggiani avevano votato contro l’inclusione del profitto nella tariffa dell’acqua e contro l’unicità dell’affidamento del servizio idrico ad imprese private), i dem locali si erano chiaramente impegnati in favore della ripubblicizzazione della gestione dell’acqua. Dopo più di quattro anni e mezzo di continui tentennamenti, cedendo infine alle pressioni dei poteri romani, hanno deciso di abbandonare l’impegno preso e di scegliere una formula che, al di là delle ingannevoli parvenze, si posiziona sul versante della (ri)privatizzazione. Il caso di Reggio Emilia assume dunque una valenza emblematica nazionale per almeno quattro ragioni.

La prima ragione. In verità, sin dai tempi di Bersani e dei vari Errani e Fassino, il Pd è stato apertamente favorevole alla privatizzazione dei servizi pubblici locali, specie dell’acqua (non per nulla una delle principali holding private multi-utilities italiane é diventata l’emiliana Hera – Holding energia, rifiuti, acqua). Ora che, Renzi imperante, il Pd è diventato il Partito della Nazione, i dem hanno accentuato la pressione in favore di una strategia centrata sulla formazione di 4-5 grandi imprese multi-territoriali su scala nazionale (Hera, Acea, Iren, A2a) capaci, si afferma, di far entrare definitivamente l’industria idrica italiana nei mercati europei ed internazionali, in competizione con i tradizionali colossi idrici multi-utilities francesi ed inglesi. La cultura efficientista, commerciale e finanziaria relativa ai servizi (ex) pubblici di prossimità e di comunità è ormai un atto di scelta collettiva di una intera classe politica nazionale.

La seconda ragione. Come in Puglia, in Sardegna, in Campania ed in tante altre città italiane del Nord (tipo Brescia) e del Sud, l’abbandono della gestione pubblica è spacciato come una maniera moderna ed intelligente di ripubblicizzare il Sii, liberando dalle corde pesanti che fino ad ora avrebbero reso inefficiente, corrotta e costosa la gestione del servizio da parte delle imprese (ex) municipalizzate. Così la forma della società mista con l’affidamento al socio privato di minoranza, di nazionalità italiana, “unicamente” della gestione operativa finanziata dalla tariffa a carico dell’utente/cliente/consumatore, rappresenterebbe la migliore soluzione in quanto economicamente praticabile, manterrebbe la gestione “pubblica” sotto il controllo politico dei poteri pubblici e radicata sul territorio. A tali strumentali argomentazioni è connessa la terza ragione dell’esemplarità nazionale del caso di Reggio Emilia.

La cultura politica della classe dirigente fa sempre più riferimento, come principio di legittimità, al radicamento nel territorio delle azioni promosse e gestite dai poteri pubblici. Così, ad esempio, il fatto di non ricorrere alla gara ad evidenza pubblica per la selezione del socio privato viene giustificato come un modo intelligente per evitare che la gestione vada ad un soggetto privato “straniero”, ad un’impresa francese o inglese o tedesca. Questo darebbe la garanzia del radicamento territoriale della gestione affidata ad Iren che, guarda caso, è una grossa impresa multi-territoriale italiana quotata in Borsa. C’è da chiedersi se i dirigenti del Pd pecchino più di mistificazione, di ignoranza o di ingenuità.

Suona come un’impostura argomentare che accollare interamente la copertura del finanziamento del servizio idrico (ivi compreso il profitto), alla tariffa pagata dal consumatore (il cittadino, in teoria, ha il diritto all’acqua potabile) consenta ad un’impresa privata quotata in Borsa, di mantenere in mano pubblica il controllo politico della gestione dei servizi idrici e la sua rispondenza funzionale ai diritti e ai bisogni delle popolazioni locali. L’evidenza quotidiana mostra che in tali condizioni il controllo reale della gestione passa agli operatori finanziari.

La realtà, infine (e siamo alla quarta ragione), è che a Reggio Emilia si è compiuto un ennesimo sfregio nei confronti della volontà dei cittadini, in particolare di tutti quei cittadini che a Reggio e in Italia si battono, utilizzando gli strumenti di democrazia partecipativa previsti dalla Costituzione, in favore della giustizia, della democrazia, in difesa dei beni comuni continuamente minacciati, e per il ripristino della res publica. La maggioranza del consiglio comunale di Reggio Emilia non ha tenuto in alcun conto la mozione di iniziativa popolare in favore della ripubblicizzazione, anzi l’hanno sbeffeggiata dichiarandosi addirittura favorevoli ad approvarla per poi votare la “mozione di partito”. Sembra ormai che referendum, mozioni, leggi di iniziativa popolare nulla possano e nulla valgano. Ma attenzione a dileggiare i cittadini che si impegnano: chi di disprezzo ferisce, di disprezzo perisce.