«No alla guerra, no alla diga». Qualche centinaia di persone domenica scorsa si è ritrovata in piazza Tahir a Baghdad cercando con questo slogan, del tutto inconsueto, di superare i clacson e il rumore delle macchine. Lo stesso grido ha risuonato, più o meno alla stessa ora ma ben più forte, a Hasankayef, antico borgo di pastori a maggioranza kurda del nord dell’Iraq, il luogo che la grande diga di Ilisu sta per sommergere, costringendo i suoi abitanti a spostarsi: tra le 40 e le 80 mila persone.

La questione della diga di Ilisu, che la Turchia sta costruendo a monte, non è soltanto un problema curdo ed è stata scelta da un gruppo di ong – tra cui RiverWatch e l’italiana Un PontePer – per tentare di risvegliare e unificare la nascente società civile irachena su una campagna che è insieme ambientale, per i beni comuni e per i servizi essenziali, oltre che per la pace. Perché il progetto Ilisu Dam – che il governo Erdogan ha deciso di continuare con finanziamenti unicamente turchi anche dopo l’addio del governo britannico e dei partner tedeschi, svizzeri e austriaci e che, superato lo stop dell’Alta Corte turca, dovrebbe vedere la fine entro il 2015 – ridurrà a tal punto il flusso del fiume Tigri da mettere a rischio l’approvvigionamento idrico dell’intero paese.

L’Iraq dal punto di vista idrico dipende al 95% dalle acque superficiali dei fiumi Tigri e Eufrate, che però hanno le proprie sorgenti in territorio turco. E non esiste alcun trattato bilaterale tra Turchia e Iraq sulla cooperazione transfrontaliera in merito alla questione delle forniture idriche. La grande diga di Ataturk, del ’90, ha già ridotto sensibilmente la portata dell’Eufrate sia in Iraq che in Siria.

Ma la rapina delle acque del Tigri provocherà un danno molto maggiore. Già oggi la portata scarsa dei due ex grandi fiumi, culla della civiltà mesopotamica, sta seriamente mettendo a rischio le popolazioni meridionali dell’Iraq. Uno scienziato della Nasa, l’idrologo Jay Famiglietti, ha denunciato come il siano state prelevate risorse idriche pari al Mar Morto (114 chilometri cubici). Nel 2040, una volta che Ankara avrà attuato l’intero progetto Gap (acronimo turco di Progetto Anatolia Sud-Orientale) che oltre alla diga Ilisu ne conta altre 22, Tigri e Eufrate potrebbero non riuscire più a sboccare in mare.

Dal Golfo Persico ha iniziato a risalire acqua salina nello Shatt al Arab. Nelle condutture della città di Bassora – che, dopo la fine del protettorato britannico ha visto un forte sviluppo industriale e urbanistico – scorre acqua salata. Non va meglio, almeno per chi non si può permettere un potabilizzatore cinese, nel resto del paese: si calcola che il 60% delle case, il 90% di quelle rurali, sia senza acqua potabile. Le paludi meridionali o Marsh Land (nella foto), abitate da popolazioni sciite dedite alla pesca e alla pastorizia, stanno sparendo, come deuncia il rapporto che le ong internazionali della campagna contro la diga Ilisu presenteranno in questi giorni alle Nazioni Unite.

E questo perché la Turchia non rilascia l’acqua che dovrebbe per alimentare i fiumi, così vanificato l’investimento per la ricostruzione legato al progetto «New Eden» a cui ha partecipato anche l’Italia (l’allora ministro Altiero Matteoli promise 2 miliardi di euro, poi decurtati a circa la metà, per cooperare al recupero del 50% dell’ecosistema paludoso entro il 2010). Soldi finiti in gran parte ad alimentare convegni e ad ingrassare fantomatiche finanziarie.

La questione dell’acqua è intrecciata con quella della guerra tanto quanto quella del petrolio, forse persino di più. La mancanza di servizi essenziali ha spianato la strada, tanto in Siria come in Iraq, all’avanzata del nuovo sedicente Stato Islamico, come segnala il centro studi Foreign Affairs in un rapporto della fine di agosto. L’Isis ha persino protestato con la Turchia per lo scarso rilascio di acqua nei territori controllati dal Califfato. Ad agosto gli abitanti di Baghdad, Kerbala, Babel sono scesi in piazza contro l’erogazione a singhiozzo dell’energia elettrica e per l’acqua inquinata che esce dai rubinetti.

Martina Pignatti Morano, presidente di Un Ponte Per, dice che nel 2011 analoghe proteste erano state duramente represse, mentre questa volta il governo di Al Abadi, che ha lanciato un ambizioso pacchetto di riforme anti-corruzione ancora per altro non attuate, ha rispettato le manifestazioni. «L’Iraq è in un momento di transizione», dice Pignatti e sottolinea come sia stato varato il primo codice del lavoro che liberalizza il diritto di scioperoo. «Noi – dice Ismaeel Dawood, italo-iracheno dell’ong Iraqi Civil Society Initiative – crediamo nella possibilità di creare una piattaforma di associazioni che accanto alla questione del Tigri si muova per democratizzare la società irachena, grazie anche alla rete internazionale di solidarietà del Social Forum».

Perciò parteciperanno al primo “micro” Social Forum iracheno, che si terrà a Baghdad dall’1 al 3 ottobre. Sperando che superi il rumore quotidiano della guerra.