Sri Lanka è un Paese che ha facce diverse, come quella del minorenne nelle cucine della guest house, e cento nomi: i latini la dicevano Taprobane e i musulmani Serendib. I portoghesi la chiamarono Ceilão, Ceylan gli olandesi, Ceylon gli amministratori di sua Maestà britannica che ne fecero la capitale mondiale del tè. C’è chi la chiama la lacrima dell’India per quella forma a goccia come staccatasi dal subcontinente.

Ma Sri Lanka non è India e, paradossalmente – forse per quelle sue influenze olandesi e portoghesi – ha un paesaggio urbano che a volte ricorda più l’Indonesia che non la grande, potente e temuta vicina da cui giunsero prima i sinhala (singalesi), poi i tamil – nel Nord – infine un milione di altri tamil “importati” dal Raj britannico per le piantagioni di tè nelle Hill. Ma il termine lacrima non è davvero poco appropriato. In questo Paese, dove la disomogeneità etnico-religiosa anziché diventare un pregio è stata l’occasione di rivolte e segregazioni e di una guerra durata 27 anni, di lacrime ne sono state versate così tante che si è perso il conto dei morti di cui una macabra contabilità senza trasparenza non è ancora riuscita a dare un numero preciso che può variare da 100 a 200mila. Volti spesso senza tomba e nella gran parte dei casi dichiarati semplicemente missing, scomparsi.

Ora che il conflitto è finito, il Nord dove la guerra è divampata agli inizi degli anni Ottanta, si può visitare. E, solo da qualche giorno, senza più restrizioni, una delle prime decisioni del nuovo governo Sirisena uscito vittorioso dal voto dell’8 gennaio scorso. Abbiamo così avuto l’opportunità di assistere all’ultima coda di tamil con passaporto estero o di stranieri in visita ma senza autorizzazione (come noi!), stazionare alle baracche dell’esercito che sbarrano, sull’ex linea del fronte, la carreggiabile A9 che da Kandy via Anuradhapura porta a Jaffna. Fermi, in attesa che da Colombo arrivasse il permesso per attraversare quella che una volta segnava una delle tante linee di demarcazione della regione di Vanni, l’area divisa in quattro distretti che con la penisola di Jaffna forma la terra tamil. A Jaffna, città di un certo fascino, ha sede la capitale della regione che le Tigri del Tamil Eelam (Ltte) – la guerriglia secessionista – riuscirono ad amministrare a periodi alterni anche se la vera capitale amministrativa era Killinochi.

Oggi città tranquilla e abbastanza ordinata, Killinochi ha un solo evidente segno della guerra: un enorme monumento al milite ignoto, guardato a vista da due soldati, che è un enorme muro grigio con una pallottola dorata piantata in mezzo. A Killinochi di milite ignoto se ne può onorare uno solo: quello con la divisa dello Sla (Sri Lanka Army). Ricordare i martiri della secessione non si può. Memoria da dimenticare.

Una storia lontana

La guerra contro l’Ltte doveva terminare tra l’ottobre del 2008 e il maggio del 2009, i mesi del terrore ricordati per una manovra a tenaglia, costellata di bombardamenti sulle no fly zone contrattate con l’Onu, e che vi concentrò oltre 300mila persone in una morsa dove si ritrovarono tigri, residenti e sfollati. L’esercito chiuse la morsa e stritolò l’énclave.

Quella storia adesso è lontana e senza memoria ma è evidente appena affronti l’argomento con chiunque. A Mannar, dove nel vicino santuario della Madonna di Madhu papa Francesco è venuto a fare una visita senza precedenti («nessun pontefice aveva mai messo piede fuori da Colombo» commenta un alto prelato presente alla cerimonia), la gente è arrivata un po’ da tutto il Nord e l’Est. Non i numeri di Colombo (tra 500mila e un milione di persone) ma decine di migliaia e non solo cattolici. «Perché vado a vedere il papa? – risponde Thulcsi, un induista come la maggior parte dei tamil dell’area – because is a King! Perché è un re». E non solo dei cristiani.

La chiesa cattolica presente nel Nord dell’isola (benché la maggioranza dei cattolici siano singalesi), si è scontrata più volte col governo. E la difesa dei cristiani passava anche per la difesa della loro identità tamil: inammissibile in un Paese dove essere singalesi e buddisti è da sempre un privilegio diventato una vera ossessione per la classe dirigente, sostenuta e pungolata dalle organizzazioni religiose con l’abito arancione. Nel 2013, per esempio, il vescovo di Jaffna, Thomas Savundaranayagam, ha presentato ricorso alla Corte d’appello contro gli espropri di terre compiuti dai militari nella penisola e che appartenevano a comunità tamil.
In effetti, lungo la strada per Killinochi, si vedono case distrutte e terreni incolti e poi, d’improvviso, grandi appezzamenti coltivati ordinatamente: confiscati e affidati a famiglie singalesi, a militari in pensione, a cooperative agricole gestite dall’esercito. Così che la vista di Francesco in terra tamil, è sembrata proprio riecheggiare quelle proteste e la presa di posizione dei vescovi locali.

Svolta epocale e polemiche

Il fatto è che la visita del papa (annunciata tra le polemiche proprio per la delicatezza della contingenza politica) è arrivata in un momento di svolta epocale che sa quasi di miracolo. Con un voto libero e non vessato da brogli e pastette, il candidato dell’opposizione Maithripala Sirisena ha avuto ragione del governo di Mahinda Rajapaksa, trasformatosi ormai in regime. Raccogliendo sia il voto tamil sia quello musulmano, Sirisena – fino al giorno prima alleato di Rajapaksa ed ex segretario del suo stesso partito (che ora è tornato a presiedere) – ha vinto, seppur di misura, sul favorito (che ha comunque ottenuto oltre 5 milioni di voti) e che aveva anticipato la scadenza del mandato presidenziale sperando di fare man bassa non essendoci sulla scena – in quel momento – nessun altro candidato.

Dire se le cose per i tamil del Nordest cambieranno è difficile anche se Sirisena dovrà considerare che proprio i tamil e i musulmani delle regioni settentrionali lo hanno fatto vincere. Ma certo ci sarà anche un “effetto Francesco”. Anche lì però le cose non sono poi tanto semplici. Nessun sacerdote del Nord sarebbe disposto a dirlo a chiare lettere, ma è noto come l’arcivescovo di Colombo, il singalese Malcolm Ranjith, non sia proprio un esempio di progressismo.

Le cronache recenti lo ricordano tra i candidati al soglio di Pietro vicini al cardinal Bertone. Due volte in Curia a Roma, ha fama di essere ben ammanicato in Vaticano dove è noto per le sue posizioni tradizionaliste. Fu Ratzinger a farlo tornare a Colombo ma a Ranjit Roma è rimasta nel cuore. Così nel cuore che il cardinale avrebbe scelto per sostituire il primate di Jaffna, ormai in età da pensione, un tamil cattolico… che da decenni però vive nella città eterna. I vescovi della regione gli hanno ufficialmente fatto sapere che di un vescovo “straniero” non se ne parla: «Deve essere un uomo che conosce la sofferenza del suo popolo da vicino per averla vissuta», ci spiegano a Mannar, la sede per eccellenza dei cattolici tamil.

Ranjit – almeno sino a ieri – è stato considerato un uomo vicino al regime di Rajapaksa, ora fervente buddista ma originario di una famiglia con tradizioni anglicane e sposato con una cattolica, Shiranthi, famosa per essere stata Miss Sri Lanka ma preziosa proprio per le sue entrature in Vaticano. Si dovrebbe anche a lei, oltre ai buoni auspici di Ranjit, se il suo controverso marito è riuscito a farsi ricevere, non solo da Ratzinger nel 2012 ma anche, appena l’ottobre scorso, da Bergoglio. Infine, poco prima della partenza per le Filippine, Rajapaksa, con la fida consorte e il fratello Gotabaya con la moglie Ayoma, è riuscito nuovamente a vedere Francesco, in visita privata nell’ambasciata vaticana di Colombo.

Una visita al papa fuori programma e lontano dagli obiettivi dei fotografi. Imbarazzante quanto i suoi quattro ospiti.