In una seduta del parlamento ellenico svoltasi lo scorso 14 gennaio, Tasos Kourakis – deputato appartenente alla formazione di Syriza – ha inaspettatamente lanciato un attacco contro un manuale di Storia dell’arte. La critica mossa da Kourakis al testo adottato nelle scuole fin dal 2003 – e che mai prima d’ora aveva suscitato polemiche – riguarda il capitolo in cui si descrive la rimozione dei marmi del Partenone a inizi Ottocento per mano del diplomatico britannico Lord Elgin.
Nel passo sotto accusa si parla del trasferimento delle sculture in Inghilterra, mentre per il giurista Kourakis i noti capolavori di Fidia vennero strappati alla Grecia con la forza. Nonostante il Ministero dell’istruzione abbia diramato un comunicato volto a sottolineare come la denuncia di Kourakis s’inscriva non senza opportunismo politico nel fervore della campagna elettorale, lo stesso ministro per l’Istruzione e gli affari religiosi Andreas Loverdos – esponente del Movimento Socialista Panellenico (Pasok) – ha dichiarato con fermezza che il libro contenente la «mostruosa» dicitura verrà ritirato dalle scuole e gli insegnanti riceveranno disposizioni su come illustrare correttamente l’argomento agli studenti.

Questo episodio dimostra che, a più di un secolo di distanza dall’evento incriminato e a pochi giorni dal voto per l’elezione del Presidente della Repubblica, due dei maggiori partiti in competizione concordano sull’esigenza di ristabilire la verità, epurando quella che considerano una mistificazione della Storia. A riaccendere gli animi su una disputa che risale agli albori dell’indipendenza greca del 1835 – quando i Greci iniziarono a reclamare il ritorno dei marmi nella patria d’origine – non è solo la congiuntura elettorale, momento certamente propizio per brandire l’archeologia come arma di rivendicazione identitaria, ma anche il recente prestito, da parte del British Museum, dell’Ilisso – una delle sculture che adornavano il frontone Ovest del Partenone – all’Hermitage di San Pietroburgo per le celebrazioni del suo 250/mo anniversario.

La statua acefala raffigurante la divinità fluviale era partita quasi in segreto da Londra nel dicembre del 2014, quale atto di disgelo fra i governi di Russia e Inghilterra in seguito alla crisi dell’Ucraina perché – come dichiarato alla stampa da Neil MacGregor, direttore del museo britannico – la vicinanza fra gli individui ispirata dall’arte deve prevalere sulle distanze indotte dalla politica. Tuttavia, ciò che negli intenti di MacGregor doveva configurarsi come un gesto di apertura e dialogo di «un museo del mondo per il mondo», è stato accolto dalla Grecia come un’intollerabile provocazione e un doloroso affronto.

Il premier Antoni Samaras non aveva esitato a esprimere rabbia e sconcerto, rilevando che, con tale prestito, il British Museum sconfessava di fatto il «dogma» in base al quale i marmi del Partenone – acquistati dall’Istituzione britannica nel 1816 e da allora negati alla Grecia – non avrebbero mai lasciato il suolo inglese. Tanto più che solo due mesi prima dell’inaspettato prestito, era stato proprio Samaras a richiedere la mediazione dell’avvocatessa anglo-libanese Amal Alamuddin e di due dei massimi esperti britannici in «restituzione culturale», Geoffrey Robertson e Norman Palmer, al fine di dare una spinta decisiva alla battaglia per il rimpatrio dei cosiddetti marmi Elgin.

Eppure, la visita di Amaluddin – meglio conosciuta come la moglie della star di Hollywood George Clooney – al Museo dell’Acropoli nell’ottobre dell’anno scorso, è apparsa più una scelta sensazionalistica che costruttiva. Intanto, ieri sera, mentre a San Pietroburgo calava l’ombra sulla solitaria figura dell’Ilisso esposta per l’ultimo giorno all’Hermitage, un centinaio di cittadini e rappresentanti politici dell’Unione centrale dei comuni della Grecia (Kede) – capeggiati dal sindaco di Maratona Elias Psinakis e da quello della città di Maroussi Giorgios Patoulis – si sono riuniti nel piazzale antistante l’ingresso del museo dell’Acropoli.

L’imponente struttura di cemento, vetro e acciaio progettata dall’architetto svizzero Bernard Tschumi in collaborazione con il greco Michalis Photiadis e inaugurata nel 2009 a coronamento di un percorso scientifico ma nondimeno ideologicamente mirato ad esaltare la purezza del classicismo, ha fatto dunque da scena a una manifestazione che si proponeva di invocare – quasi fosse una preghiera – il sospirato ritorno «a casa» dei marmi conservati in Gran Bretagna.
La retorica del sentimentalismo espressa nelle candele accese dai partecipanti e rivolte alla più alta galleria del Museo – dove sono esposti i blocchi superstiti delle metope e del fregio del Partenone assieme ai malinconici calchi dei frammenti attesi – ha però evidenziato la debolezza dell’atteggiamento romantico-repubblicano già insito negli appassionati appelli di Melina Mercouri, ministro della Cultura in Grecia alla caduta della dittatura dei Colonelli.
Le rivendicazioni avanzate nei primi anni ottanta dalla pasionaria ellenica, la quale si richiamava alle radici culturali dell’Europa e al diritto della Grecia – culla della più antica democrazia – di riappropriarsi del suo patrimonio, tornano ora di attualità.

Ci chiediamo, tuttavia, se l’auspicato successo di una disputa legale su fatti che risalgono al XIX secolo ovvero al tempo in cui la Grecia era sotto la dominazione ottomana potranno mai restituire al popolo di oggi gli ideali del classicismo ai quali ancora si aggrappa come alla biga alata di Platone. Non è sull’autenticità (o la menzogna) di un dispaccio emanato dalla Sublime Porta che si gioca il futuro della Grecia, quanto piuttosto sull’accettazione di tutti gli eventi storici che fin da un remoto passato l’hanno attraversata, arricchendola o impoverendola.

Se un giorno i marmi del Partenone torneranno sull’Acropoli come in una processione di nuove Panatenee, ci auguriamo che ciò non sia il risultato di una «sentenza» ma il rigoglioso frutto di un dialogo culturale tra Stati, per il bene dell’imperitura bellezza che appartiene all’umanità intera.