La processione funebre di Muhammad Ali che ha attraversato Louisville in una mattina di sole, ha dovuto rallentare fino a passo d’uomo per il numero di fiori, lanciati dalla folla assiepata lungo tutto il tragitto, che ricoprivano il parabrezza oscurando la visuale del conducente.

Il funerale si è trasformato in un’emozionante ma anche festosa celebrazione con momenti di teatro spontaneo, come la staffetta di persone che a turno hanno corso accanto alla limousine nera ricreando l’icona del proprio idolo, chi con guantoni, chi con la classica felpa con cappuccino degli allenamenti. Lungo tutto il tragitto la folla disposta sulla strada ha intonato cori di «Ali!, Ali!» e nugoli di bambini hanno scandito: «Float like a butterfly, sting like a bee!» in onore al pugile che sul ring galleggiava come una farfalla e pungeva come un’ape. Migliaia di persone hanno tenuto a toccare l’auto e dare così un’ultima carezza all’uomo che lascia un vuoto incolmabile in tutto il mondo.

Il funerale del «Greatest» – il più grande di tutti i tempi – si è tramutato in festa e celebrazione dell’idolo di questa piccola città del sud da dove il Louisville Lip – il «labbro» – era partito diciottenne per le olimpiadi di Roma e un appuntamento con la storia. Ieri la processione ha fatto l’esatto percorso della parata organizzata in suo onore quando quell’estate tornò dall’Italia da campione olimpico.

La sua città anche allora l’aveva celebrato ma anche con la sua medaglia al collo non gli concedeva di sedersi nei ristoranti per soli bianchi – la ragione per cui lui quella medaglia l’aveva scagliata nell’Ohio river e quando quarto anni dopo era passato professionista lo aveva fatto annunciando l’adesione al Nation of Islam e l’assunzione di un nuovo nome islamico che gridava la sfida di un identità afroamericana.

Quando ancora era Cassius Clay ragazzo era stato chiamato «lip» per l’abitudine a «straparlare» («labbro» significa grosso modo «chiacchierone insolente») e lui, Cassius come Muhammad, fece dell’insolenza politica la sua caratteristica, incidendo sul progresso sociale come e più dei discorsi di Malcolm e King.

Facendolo in odo istintivo e viscerale e col coraggio di chi non arretra neanche davanti alle forze retrograde di tutta una nazione unite contro di lui , neanche quando il suo stesso paese gli strappò il titolo e le medaglie e lo scaraventò in galera per la sua opposizione alla guerra in Vietnam.

Perché nel codice profondo del razzismo di Louisville e d’America, «l’insolenza» era la parola dello schiavo che non voleva stare al «suo posto» e quella orgogliosa di Muhammad Ali aveva la forza prorompente della resistenza. Per questo anche nei cori di ieri sono vissute le sue parole, le sue rime i suoi slogan e rap antesignani. Le «spacconerie» di Ali prefiguravano l’antagonismo che avrebbe prodotto l’hip hop, un brusco scossone all’epoca, alla compiacenza del sud segregato, dell’America razzista. Ieri la sua vittoria era disegnata nel cordoglio della sua gente ma ancora di più nelle lacrime sui visi di ogni etnia di cui era composta la folla.

«Ali Bumayé!» urlavano in molti riprendendo il coro dei tifosi africani che lo incitavano durante lo storico Rumble in the Jungle contro George Foreman a Kinshasa. In Zaire fu come in tutta la sua vita: qualcosa di molti di più di un ex campione dei massimi che sale sul ring per riprendersi la sua corona contro ogni pronostico. Come sempre Ali era un simbolo potente di antagonismo, un campione della gente e della giustizia: indomabile sovversivo. Questo è stato anche durante il suo estremo saluto.

Il feretro è passato davanti alla sua casa d’infanzia, un modesto cottage di legno dipinto di rosa, trasformato in santuario dai tributi della gente che vi ha depositato fiori e messaggi di cordoglio. È transitato davanti all’African American Heritage Foundation su Muhammad Ali boulevard e di fronte al Muhammad Ali Center dove campeggiava fra le altre la corona di fiori spedita da Mohammed Nawaz Sharif, il primo ministro del Pakistan.

Anche quest’ultima volta per lui è stato, come certamente avrebbe voluto, al centro della attualità politica ed un ultimo inequivocabile atto di resistenza. La cerimonia di rito islamico è stata di per sé pesantemente simbolica nel cuore di questa America convulsa dall’esclusione musulmana provocatoriamente proposta da Trump – un ultimo gesto di sfida e di ribellione morale contro le forze dell’involuzione dell’oscurantismo.

Il feretro, portato a spalla tra gli altri da Will Smith – l’attore che lo interpretò nel film biografico di Michael Mann, e Mike Tyson il peso massimo che più di ogni altro tentò di emularlo, raccoglierne l’eredità ribelle – è infine giunto al Kfc Yum! Arena (il palasport dallo sfortunato nome di una catena di fast food). L’orazione funebre è stata eseguita da Bill Clinton, il presidente che lo ha insignito della medaglia al merito e che era già venuto a Louisville per l’inaugurazione del suo museo undici anni fa. «Era stato l’atleta più potente ed elegante di sempre» ha detto Clinton alla platea gremita di dignitari e sportivi, fra cui Kareem Abdul Jabbar e Lennox Lewis.

«Ma ha mostrato la vera forza quando è rimasto aggrappato alla vita con le sue meni tremanti». Dopo la cerimonia l’ultimo tragitto fino al Cave Hill Cemetery dove Muhammad Ali finalmente riposerà. Ancora, irrimediabilmente, libero.