Basta percorrere con lo sguardo dal basso verso l’alto la Nelson’s Column in Trafalgar Square per avere sentore, insieme a una vertigine, di quanto fosse grande la fama dell’ammiraglio leggendario che il 21 ottobre 1805 sottrasse la Gran Bretagna alle mire di Napoleone, sbaragliando la flotta franco-spagnola al largo della costa fra Cadice e Gibilterra. Tutto ciò che avvenne dopo la morte di Horatio Nelson, proprio in quella battaglia, fu perfettamente coerente con la costruzione di un mito, compresa la tendenza a epurarne la biografia dagli aspetti meno edificanti. E la macchia più ostinata sulla divisa pluridecorata dell’uomo che aveva contribuito in maniera tanto rilevante all’affermazione della supremazia marittima britannica dovette essere la sua stabile relazione extra-coniugale con una donna che era a dir poco discussa nella Londra del tempo.
Emma Hamilton aveva a sua volta qualcosa di leggendario: una bellezza magnetica, un gran carattere e trascorsi incredibili. Nelson l’amava perdutamente. E se aveva pensato per tempo a destinarle la tenuta di Merton Place (prossima al sobborgo di Wimbledon), solo poche ore prima della Battaglia di Trafalgar, come per un presagio, aggiunse al testamento un codicillo in cui chiedeva al re e alla Nazione di garantire alla donna il suo tenore di vita qualora egli avesse incontrato la morte. Menzionò pure la bambina che aveva avuto da lei e che non a caso si chiamava Horatia. Ma le sue ultime volontà andarono disattese. Emma morì dieci anni dopo annientata dallo spettro della povertà, che dalla nascita, nel 1765, alla prima giovinezza aveva già pesantemente condizionato la sua vita.
Ragazzina domestica
Quando giunse per la prima volta a Londra, era semplicemente Emy Lyon, una ragazzina nata in un villaggio nel nord-ovest del paese che cercava lavoro come domestica. Nella capitale cominciò a farsi chiamare Emma Hart. Divenne una Hamilton solo nel 1791, quando convolò a nozze, fra l’incredulità di molti, con l’anziano ambasciatore britannico in servizio presso la corte di Napoli, che cinque anni prima l’aveva presa in casa come amante. Lui, Sir William Hamilton, pure giocò una parte determinante nella sua vita. E se Oltremanica Lady Hamilton è stata riscoperta a colpi di biografie come l’amante amatissima di un eroe nazionale, in Italia, invece, gode semmai della luce riflessa del marito: sia perché quest’ultimo, per via dei suoi interessi antiquari e scientifico-naturalistici, appare un fascinoso esponente dell’Europa dei Lumi; sia perché Nelson, visto da altre latitudini, appare un personaggio piuttosto sinistro.
Fu nel 1799 che, cacciati i Borbone, i francesi istituirono una repubblica anche a Napoli, ma questa non durò che pochi mesi. La flotta britannica era giunta in soccorso dei reali, e Nelson, già celebre per aver vinto la Battaglia del Nilo, si adoperò nella sanguinosa repressione dei patrioti che avevano abbracciato gli ideali repubblicani: un’onta diventata ancora più grande attraverso la lente del Risorgimento. E pure questa volta c’entrava lei, Lady Hamilton, che era riuscita a diventare amica fidata della regina Maria Carolina e ingranaggio fondamentale nelle sue macchinazioni politiche.
Un mostra piena di motivi d’interesse, accompagnata da un volume di saggi più che da un tradizionale catalogo (a cura di Quintin Colville con Kate Williams, pp. 288, 250 ill., Thames & Hudson), ricuce le maglie della sua vita singolare, provando che questa donna non poteva rimanere per sempre all’ombra dei suoi uomini.
Allestita (fino al 17 aprile) in quella sorta di tempio della Marina britannica che è il National Maritime Museum di Greenwich, Emma Hamilton: Seduction and Celebrity riesce a fare perno sulle collezioni dello stesso museo, traendo molto vantaggio pure dal suo patrimonio insospettato di documenti. Proprio perché il museo è pervaso da un forte spirito identitario e per di più sta in un posto ideale per giornate fuori porta, va anche premesso che alcune scelte nell’allestimento della mostra risentono del suo potenziale bacino di pubblico: dai titoli di certe sezioni alla parete che accoglie i visitatori all’ingresso con i volti enormi di Laurence Olivier e Vivien Leigh, protagonisti del film That Hamilton Woman (1941, regia di Alexander Korda; in Italia dal 1947, con il titolo Il grande ammiraglio).
Andando avanti, però, si rimane conquistati proprio da uno dei suoi espedienti divulgativi: la reinterpretazione delle Attitude nel video delle Centre Screen Productions. E le Attitude sono un punto nodale: il motivo per cui Emma Hamilton guadagnò la fama internazionale di artista sui generis, e il suo nome ricorre negli studi moderni sulla diffusione del gusto neoclassico. Potrebbero essere definite una sorta di performance – alcuni le assimilano ai tableau vivant – attraverso cui Emma, sotto lo sguardo compiaciuto di Sir William e per diletto dei suoi ospiti, interpretava personaggi femminili del mondo antico. Conosciamo le Attitude attraverso fonti visive che ebbero grande fortuna, e anche attraverso i racconti di quanti, lungo le rotte del Grand Tour, alimentarono una certa pruriginosa curiosità verso l’inventiva di Emma e le sue vesti leggere. Uno di questi fu Johann Wolfgang Goethe, che visitò Napoli nel 1787 (Lady Hamilton. Eros e Attitude è il titolo di una mostra ben meditata, dedicata di recente a questa forma d’arte proprio dalla Casa di Goethe a Roma, e poi migrata alla Haus der Fürstin di Wörlitz).
Astuzia e intelligenza
Dunque, giunta a Napoli, Emma sfoderò intelligenza e astuzia persino nel fare proprio il gusto per l’Antico, che quasi si respirava nell’aria a così pochi chilometri dagli scavi di Ercolano e di Pompei, e particolarmente nella residenza dell’ambasciatore a Palazzo Sessa. Sir William, che volle curare la sua educazione, aveva messo insieme un’altra notevole collezione di vasi antichi dopo aver venduto la prima, con molta gloria per lui, al British Museum (il museo, vent’anni fa, gli dedicò una mostra memorabile, Vases and Volcanoes, accanto al cui catalogo rimane fondamentale il volume di Carlo Knight, Hamilton a Napoli).
Va da sé che, per le sue Attitude, Emma prendeva ispirazione anche dai reperti di scavo, o dalle incisioni tratte da essi, che poteva avere a portata di mano: le pitture pompeiane con le danzatrici alimentarono particolarmente la sua fantasia, anche perché evocavano le radici remote delle danze popolari. C’è però un bagaglio di esperienze pregresse che la mostra in corso invita a considerare. Quando arrivò a Londra, Emma fu risucchiata dal pulsante mondo di Covent Garden, fatto di teatri e di postriboli. Era attratta dalla sue luci anche se, per necessità, si muoveva pure fra le sue penombre. Fra le prime fascinazioni subite lì e le innumerevoli pose nello studio di George Romney, dovette già sviluppare le sue capacità interpretative pur senza mai arrivare a essere un’attrice.
Le mitologie di Romney
Fu su sollecitazione di Romney che iniziò a immedesimarsi in figure mitologiche come Circe, le baccanti, Calipso, Cassandra, la Sibilla… Alcune di esse riemergevano dai testi di Shakespeare, che conobbero nuova fortuna proprio alla fine del Settecento. La sequenza dei dodici quadri di Romney fa un grande effetto in mostra, come quella delle incisioni tratte da questi, che grazie alla loro facile diffusione resero il volto di Emma famoso. Con Sir William – zio dell’aristocratico Charles Francis Greville, a cui era ambiguamente legata – arrivarono le commissioni a Joshua Reynolds e poi a Thomas Lawrence e a Elisabeth Vigée Lebrun, i quali ultimi la ritrassero nei suoi anni napoletani: l’apice del suo fascino e, quasi inverosimilmente, della sua influenza. Senz’altro fra i prestiti più rilevanti, questi ritratti sono esposti a ridosso della sezione sugli affaire di carattere politico, che potrebbe solleticare non poco l’interesse degli storici.
Al volgere del secolo Emma tornò a Londra insieme all’ammiraglio, che da un anno e mezzo era il suo amante, e all’ambasciatore, che nel 1803 sarebbe morto. Anche se il suo legame parentale con Horatia fu dissimulato, il suo ménage à trois era di dominio pubblico e le causò molta diffidenza. Quando anche Nelson morì e iniziarono i guai, nei salotti buoni le voltarono le spalle. Fu allora che la donna scrisse: «Sono stata molto felice a Napoli, ma tutto sembra svanito come un sogno». Aveva dedicato tante energie a Merton Place ma sulla tenuta scese presto la scure dei debiti. Con l’amante l’aveva ribattezzata «Paradise Merton». Per lei il vero paradiso dovette essere, però, la dimora con la veduta mozzafiato sul Golfo, tuttora sottratta allo scorrere del tempo da un’opera strepitosa di Giovanni Battista Lusieri.